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Vi racconto gli eccessi di livore di Massimo D’Alema contro Matteo Renzi

Il repertorio è ormai abituale, almeno da un certo tempo in qua, ma mi ha ugualmente impressionato il livore di Massimo D’Alema verso Matteo Renzi nell’intervista che gli hanno appena fatto nel salotto televisivo di Ballarò, il conduttore uscente Massimo Giannini e il direttore del telegiornale de la 7 Enrico Mentana. I quali ad un certo punto hanno riso, o sorriso, del sarcasmo dell’ospite probabilmente per ragioni di sola cortesia, o opportunità, cioè per non apparire troppo renziani. Cosa che a Giannini, poi, non sarebbe comunque riuscita, dopo polemiche che gli sono costate anche antipatiche richieste di licenziamento dalla Rai.

Dato che in politica sono importanti anche le circostanze nelle quali si dicono certe cose, o si sferrano certi attacchi, mi ha colpito che l’ex presidente del Consiglio, dimentico forse proprio di questo ruolo non di partito ma istituzionale svolto – si deve presumere – al servizio più del Paese che della propria parte, abbia rimesso un po’ alla berlina proprio ora il capo del governo in carica. Che gli starà antipatico, ma è preso in questi giorni da impegni internazionali che espongono non solo lui ma anche l’Italia in tutto il mondo. E’ in pieno corso la peggiore crisi che abbia attraversato l’Unione Europea: politicamente più insidiosa, con l’uscita della Gran Bretagna, di quella economica alla quale ci siamo forse assuefatti.

Più lo sentivo e più mi stupivo, pur avendo assistito in tanti anni di lavoro a scontri più o meno epici fra e nei partiti che hanno alimentato la storia della prima e della seconda Repubblica, se ve n’è stata davvero una seconda, e persino una incipiente terza, e non siamo invece più realisticamente alle prese con quella interminabile transizione dall’inizio incerto. Essa è infatti riconducibile per alcuni aspetti alla caduta del muro di Berlino, e del comunismo sovietico, alla fine del 1989, e per altri all’esplosione giudiziaria di Tangentopoli, nel 1992. Che fu anche l’anno delle stragi di mafia e dei presunti cedimenti dello Stato con le famose trattative di cui si occupa da tre anni un processone a Palermo.

Nel 1992 un pugno di magistrati, a Milano, decise di usare la mano pesante, diciamo così, contro un fenomeno diffuso e vecchio, noto a tutti, e negato solo per ipocrisia, come il finanziamento illegale della politica. Magistrati fra i quali due decisero purtroppo di investire la loro fama in politica, ledendo agli occhi di tanti la doverosa neutralità del ruolo svolto in precedenza: Antonio Di Pietro, approdato in Parlamento grazie proprio a D’Alema, che lo candidò al Senato nel collegio blindatissimo del Mugello, e Gerardo D’Ambrosio, approdato al Senato pure lui nelle liste del partito di D’Alema.

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Ad un certo punto dell’intervista, prevenendo una domanda che giustamente sentiva spontanea da parte degli intervistatori, D’Alema ha motivato le sue – ripeto – abituali esternazioni contro Renzi sui giornali e in televisione, anziché nelle sedi proprie del partito, rivelando inconsapevolmente una certa paura di parlare, per esempio, nella direzione del Pd. Dove si è invece vantato di avere avuto il coraggio di farlo in altre occasioni, nonostante l’ostilità anche fisica di Renzi e dei suoi sostenitori. Che hanno largamente i numeri per fare il bello e il cattivo tempo.

Da ciò si deve presumere, salvo piacevoli smentite, che D’Alema non abbia voglia di partecipare e tanto meno di parlare nella riunione della direzione slittata al 4 luglio per le “riflessioni” promesse da Renzi sui cattivi risultati delle elezioni amministrative di giugno. Che sembrano ormai lontanissime di fronte ai fatti sopraggiunti con la Brexit.

Ad alimentare maggiormente la curiosità attorno alla direzione di lunedì prossimo è ora il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, di cui i retroscenisti, dentro e fuori il Pd, hanno ripreso a monitorare dichiarazioni, pranzi, cene, sospiri e strizzatine d’occhio o di barba, come ai tempi del governo di Enrico Letta. Si cerca, in particolare, di capire bene se e di quanto stiano aumentando le distanze di Franceschini da Renzi, magari in vista del referendum d’autunno sulla riforma costituzionale e del rischio di una sconfitta per l’imprudenza, da lui già rimproverata al presidente del Consiglio, di avere troppo “personalizzato” la prova elettorale.

Un altro, grosso motivo di curiosità attorno alla prossima riunione della direzione del Pd è l’annunciata partecipazione dell’ex sindaco di Torino, e ultimo segretario dei Democratici di sinistra, Piero Fassino. Che qualcuno, fra le divise minoranze del Pd, evidentemente scettico verso la candidatura del giovane ex capogruppo della Camera Roberto Speranza, vorrebbe mettere in pista come concorrente di Renzi alla segreteria nel prossimo congresso, peraltro anticipato.

Certo, al povero Fassino, per quanto sia un grissino falsamente fragile, distintosi nella tormentata storia dei post-comunisti italiani per avere avuto il coraggio di riconoscere per primo che nello scontro con Bettino Craxi il venerato Enrico Berlinguer ebbe il torto di assegnarsi il ruolo del conservatore e di perdere, riuscirà difficile apparire attrattivo dopo la clamorosa sconfitta inflittagli dalla grillina Chiara Appendino sotto la mole piemontese.

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Per tornare e chiudere con D’Alema, a sentirne la rappresentazione fatta del suo scontro a distanza con Roberto Giachetti, il candidato sconfitto del Pd al Campidoglio che egli ha assicurato di avere alla fine votato per disciplina, sarebbe stato lui, l’ex presidente del Consiglio, la vittima.  Ciò perché Giachetti disse –come effettivamente disse- di non gradire un appoggio di D’Alema considerandolo dannoso per la sua candidatura. E ciò – ha lamentato l’ex presidente del Consiglio – “solo perché mi ero permesso di riservarmi una riflessione”, in un altro salotto televisivo, ospite di Lilli Gruber.

In verità, se non ricordo male, in quell’occasione D’Alema non si limitò alla riserva di una riflessione, già poco incoraggiante per un candidato, ma disse anche di volersi adoperare per individuare, e presumibilmente, sostenere un’altra candidatura. Fu sempre in quella occasione ch’egli parlò a favore del suo amico ed ex ministro dei Beni culturali Massimo Bray, inutilmente corteggiato per il Campidoglio anche dalla sinistra, diciamo così, alternativa. Sono pronto a scusarmi con D’Alema se la memoria mi ha tradito.



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