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Auspici e timori di Giorgio Napolitano su Renzi, referendum e Italicum

Costretti dalla realtà ad abituarci a tutto, anche alle vuote parole di protesta, e quindi all’indifferenza, opposte persino al dramma in corso in Turchia, dove un despota travestito da democratico ha colto il pretesto fornitogli da un fallito colpo di Stato militare per fare un’epurazione non si sa solo se di stile più stalinista che nazista, estesa addirittura a magistrati e insegnanti, si deve mestamente tornare ad occuparsi della nostra opaca politica interna. Mestamente, perché non è molto allegro il solito spettacolo del progressivo sfarinamento di partiti e gruppi parlamentari. Opaca, perché la politica prodotta da questa polverizzazione non può che risultare sempre meno chiara.

Eppure in un quadro così deludente, mentre siamo costretti a prendere o solo a immaginare le distanze che si accorciano o si allungano fra Renato Schifani e Silvio Berlusconi o Angelino Alfano, fra Denis Verdini e Raffaele Fitto dopo l’aggancio del primo col vice ministro ex montiano Enrico Zanetti, o fra Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani, e via scomponendo ulteriormente ciò che è già scomposto, c’è un vecchio italiano, con i suoi 91 anni suonati, per quanto ben portati, che si ostina ad essere fiducioso e a lanciare appelli alla concordia.

Parlo naturalmente del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Che, per nulla intimidito o scoraggiato dalle proteste che si levano sistematicamente da destra e da sinistra per l’interesse che egli si ostina a mostrare verso ciò che avviene nel Parlamento e dintorni, è appena tornato ad auspicare “un nuovo patto per l’Italia”, come dice un titolo di colore rosso dedicato dal Foglio ad una sua intervista. Un patto fra “maggioranza e opposizione” nello spirito delle larghe intese da lui volute quand’era al Quirinale. Un’opposizione, quella pensata da Napolitano, che sembra però fermarsi a quel che resta dell’area di Silvio Berlusconi perché il presidente emerito ha smesso da tempo di sperare in un rinsavimento della sinistra radicale, intesa come massimalista, non ha mai smesso di diffidare dei grillini, neppure quando questi hanno cercato ogni tanto di essere con lui meno insolenti del solito, e ricambia sinceramente la disistima politica del segretario leghista Matteo Salvini.

Napolitano ritiene, in particolare, e testualmente, che “un’alleanza fra i due poli” resasi necessaria nel 2013, dopo le infruttuose elezioni politiche, è auspicabile anche “oggi, nonostante le divisioni e i nuovi gruppi parlamentari” nati nei tre anni trascorsi da allora, perché la richiedono questioni vitali come “Europa, crescita, occupazione, Mezzogiorno, terrorismo, immigrazione, asilo”.

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La premessa di questo “nuovo patto per l’Itala”, con o senza il rosso del Foglio e della ciliegia con la quale si firma il direttore Claudio Cerasa, che ne ha raccolto l’intervista, è però per Napolitano la conferma referendaria della riforma costituzionale, a dispetto del “terrorismo psicologico messo in giro da qualche propagandista del no su specifici difetti e su presunti rischi”. Ma a dispetto anche dell’errore ch’egli imputa al presidente del Consiglio, e segretario del Pd, di avere “parlato delle conseguenze per se stesso” di un risultato negativo del referendum, con l’annuncio di dimissioni e conseguente crisi di governo. Che hanno finito –sembra pensare Napolitano – per attizzare il fuoco trasformando la prova referendaria sulla riforma costituzionale in un plebiscito su di lui, Renzi. Che invece non doveva sentirsi in gioco, bastando e avanzando che in gioco fosse, e sia tuttora, “la stabilità” del sistema, prima ancora di un governo.

L’immagine di un referendum plebiscitario, peraltro, ha dato anche il pretesto agli avversari di Renzi per attribuirgli il proposito di usare un’eventuale vittoria per chissà quale regolamento di conti fuori e dentro il suo partito. C’è già stato qualche umorista, chiamiamolo così, che ha accusato Renzi di voler e poter fare, in caso di vittoria referendaria, come Erdogan sta facendo in Turchia per celebrare, diciamo così, la sua vittoria sui militari che hanno tentato di rovesciarlo.

A Renzi il presidente emerito della Repubblica non si è tuttavia limitato a rimproverare la “personalizzazione” del referendum, cui lo stesso Renzi sta cercando faticosamente di rimediare non sempre riuscendovi, in verità, perché ogni tanto gli scivola il piede sulla frizione. Napolitano gli ha anche rimproverato il tentativo di sottrarsi all’esigenza di una correzione della nuova legge elettorale della Camera chiamata Italicum, rimettendosi al Parlamento se vorrà o potrà farlo, prevedibilmente dopo il referendum.

Una iniziativa parlamentare, secondo Napolitano, è invece opportuna ed urgente, col concorso del Pd di cui Renzi è pur segretario, anche prima del referendum. Che ne sarebbe anche svelenito perché molti no alla riforma costituzionale nascono o sono motivati proprio dallo scenario che si teme con l’applicazione dell’Italicum, concepito – ha ammesso e ricordato il presidente emerito – in “tempi” diversi da quelli attuali, in cui la crescita dei grillini ha rafforzato il fenomeno del cosiddetto tripolarismo.

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Più che una vittoria dei grillini in sé, per quanto questi certamente non gli piacciano, Napolitano teme che con il ballottaggio previsto dalla nuova legge elettorale fra le due liste più votate “si rischia nel contesto attuale di affidare la direzione del Paese a una forza politica”, fosse pure il Pd, “di troppo ristretta legittimazione nel voto del primo turno”.

La frequenza e l’ostinazione con le quali Napolitano parla di riforme e d’altro costringerà probabilmente gli amici e professori Vincenzo Lippolis e Giulio Maria Salerno ad aggiornare ulteriormente il loro saggio sulla sua Presidenza. Uscito nel 2013, mentre si concludeva il primo settennato di Napolitano, come “la Repubblica del Presidente”, per l’edizione Mulino, esso è appena stato ripubblicato col titolo “La Presidenza più lunga”, comprensivo dei due anni supplementari, e densi di decisioni, trascorsi dallo stesso Napolitano al Quirinale dopo la rielezione: la prima nella lunga storia della Repubblica. Siamo ormai ad una Presidenza continua, fra effettiva ed emerita, nel silenzio non so se più cortese o rassegnato di chi lavora adesso sul Colle più alto di Roma: Sergio Mattarella.


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