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Carige, Banco Popolare, Mps. Ecco le ragioni dei capitomboli in Borsa

Fabrizio Viola

Dall’inizio dell’anno, l’indice di borsa che misura le quotazioni delle principali banche italiane è diminuito di quasi il 57 per cento. Per oltre la metà, questa perdita si è concentrata nel periodo, pur breve, intercorso fra il referendum sulla Brexit e il momento in cui si scrive. Veri e propri tracolli azionari sono stati registrati da alcuni istituti, fra i quali MPS (-75% da inizio anno e -50% dopo Brexit), ma anche Carige, Banco popolare e la stessa Unicredit, quest’ultima con una flessione complessiva appena inferiore al 70 per cento. D’altronde, anche una banca comunemente considerata solida come Intesa ha lasciato sul terreno quasi il 50 per cento del suo valore, con una caduta postBrexit del 33 per cento.

Tornando su MPS, la discesa dei corsi azionari ha fatto calare la capitalizzazione della banca sotto la soglia del miliardo di euro, il che significa che sono stati interamente bruciati i due recenti aumenti di capitale, che avevano portato nella casse dell’Istituto 8 miliardi di nuove risorse. La turbolenza ha investito con particolare forza il mercato italiano, ma è l’intero settore bancario europeo ad essere stato messo sotto pressione, tanto che l’indice Stoxx ha perso da inizio 2016 il 35 per cento del proprio valore. Questi andamenti, di evidente drammaticità, mettono la politica economica di fronte a questioni di grande rilevanza e pongono più di una questione sull’efficienza dei nuovi meccanismi di sorveglianza e risoluzione introdotti proprio a inizio d’anno. Questi schemi sono ricalcati sulla teoria dell’azzardo morale e assumono l’esplicito obiettivo di trasferire agli azionisti (ma anche ad altri stakeholders quali gli obbligazionisti e – oltre una determinata soglia – gli stessi depositanti) il costo di eventuali crisi bancarie. Semplificando al massimo, il principio teorico sottostante è che, posti di fronte al rischio di perdere il valore del proprio investimento, gli azionisti sarebbero incentivati a controllare l’operato dei manager e a imporre ad essi comportamenti virtuosi.

Questa sorta di autocontrollo interno all’impresa bancaria dovrebbe scongiurare l’assunzione di un eccesso di rischio – come quello connesso, ad esempio, all’erogazione di prestiti a soggetti non meritevoli – e divenire il veicolo principale attraverso cui ripristinare la stabilità di lungo periodo del settore. Un tipo di soluzione che nasce dall’insoddisfazione per gli altissimi costi pagati dai contribuenti (peraltro assolutamente marginali nel nostro Paese) per salvaguardare l’esistenza stessa del settore bancario all’indomani della grande crisi finanziaria internazionale.

Nell’attuale contesto europeo, l’attuazione di questi principi di sorveglianza pone però almeno due ordini di problemi. Il primo è la loro robustezza rispetto al verificarsi di shock esogeni che abbiano possibili conseguenze sistemiche. Il secondo è rappresentato dalle condizioni di partenza in cui le nuove regole vengono applicate. Riguardo al primo punto, non ci sembra che possa esservi esitazione alcuna nel riconoscere la portata di uno shock esogeno quale quello della Brexit e nel ricordare come quest’ultimo si inneschi su altri shock di rilevanza storica e non ancora riassorbiti, come sono stati la crisi finanziaria internazionale e, nel caso italiano, il settennato di recessione. Perturbazioni di natura macroeconomica che impongono adeguate contromisure e che collocano in un ordine di priorità secondario la “punizione” degli azionisti degli istituti bancari in difficoltà, proprio alla luce del rischio sistemico che sempre più chiaramente sembra profilarsi. In altre parole, appare essenziale riaffermare la normalità – e non l’eccezionalità- di un dominio della dimensione macro su quella micro.

In merito al secondo aspetto, la sanzione sugli azionisti è efficace e giustificabile laddove il cattivo andamento di una banca sia attribuibile a errori di management. Questi non sono certo mancati nel caso italiano, ma se il problema delle sofferenze ha assunto le dimensioni attuali è anche per il verificarsi di una recessione inattesa e, soprattutto, non interamente riconducibile a squilibri del nostro paese. É necessario qui ricordare che le passate politiche di restrizione del bilancio pubblico furono collocate sotto l’egida rassicurante dell’austerità espansiva e che ad esse né le autorità italiane, né tantomeno quelle europee, associarono alcuna conseguenza recessiva. Nessun impatto era quindi atteso sui conti del sistema bancario, trovando al contrario conforto ufficiale l’idea di una ripresa che avrebbe permesso di assorbire definitivamente gli effetti della crisi finanziaria. Sappiamo oggi quanto grave sia stato l’errore di calcolo allora compiuto che, fra i tanti effetti, ha avuto quello di aumentare esponenzialmente la crescita dei non performing loans. Anche in questo caso, quindi, ci troviamo di fronte a un dominio della dimensione macro.

La rilevanza di questi aspetti non è circoscritta al caso italiano, se è vero che la stabilità del sistema bancario europeo non sembra avere fatto grandi passi avanti dopo l’adozione dei nuovi meccanismi, essendo semmai la situazione molto peggiorata, con l’aggravante di aver colto nuovamente di sorpresa le autorità preposte. Al riguardo pesa l’incompletezza del sistema (mancando tuttora – lacuna che a quanto è dato di capire non è destinata ad essere colmata nel breve-medio periodo – la mutua garanzia europea sui depositi), che ha oggettivamente favorito l’innescarsi di meccanismi di self fulfilling prophecies, che per alcune banche italiane hanno assunto a tratti una fisionomia assai prossima a un bank run.

L’agenda di politica economica non può quindi limitarsi a una semplice attuazione del nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie (quel che ne siano le conseguenze), apparendo ormai prioritario, per l’Italia, l’obiettivo congiunto di ricapitalizzare il sistema e di ripristinare i flussi di credito (anche attraverso un interventi pubblico che muti radicalmente gli attuali assetti proprietari); per l’Europa l’adozione di strumenti volti a evitare che lo stesso capitale si dissolva per il verificarsi di shock esogeni indipendenti dalle scelte del management. Il recupero di un corretto equilibrio nei principi posti a presidio delle policy indirizzate alle banche è particolarmente importante per una corretta valutazione dello stato di salute del nostro sistema bancario. Dopo anni molto difficili, il sistema nel suo insieme è tornato a registrare un utile netto, gli accantonamenti si sono molto ridotti, il credito alle famiglie è tornato ad espandersi, la rischiosità degli impieghi pare aver raggiunto il picco.

Queste premesse dovrebbero condurre a migliori risultati nel corso dei prossimi anni e dare maggior fiducia sulla capacità di resistenza del sistema. Il tutto in uno scenario che rimane complesso e ancora incerto per quel che riguarda lo stock dei finanziamenti. Proprio la questione dei crediti problematici è trattata nel capitolo monografico del Rapporto, con un duplice obiettivo: da un lato fornire una descrizione completa degli strumenti fino ad ora attivati per intervenire sulle sofferenze e sugli altri crediti problematici; dall’altro lato offrire una simulazione degli effetti che l’intervento del fondo Atlante potrà avere sul bilancio delle banche. Ciò che emerge dalle simulazioni è che l’intervento del fondo Atlante contribuirebbe a migliorare le tendenze in atto, accelerando leggermente la riduzione del peso delle sofferenze.

Tuttavia, data l’attuale esigua dotazione che il fondo potrà destinare all’acquisto delle cartolarizzazioni, il suo intervento non sarà risolutivo. Tenendo presente un andamento dell’economia nazionale non particolarmente brillante nel corso dei prossimi anni, considerando un andamento dei tassi di interesse molto piatto e mantenendo una certa prudenza nella elaborazione delle previsioni, emerge comunque un generale miglioramento della condizione del sistema bancario. Allo stato attuale il credito è tornato a fluire verso le famiglie, mentre continua a contrarsi lo stock di impieghi destinato al settore produttivo. La previsione mostra un graduale rafforzamento del credito verso entrambi i settori, con le imprese che si gioveranno di una crescita del credito più marcata negli anni finali della previsione.


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