C’è una leva facile se si vuole criticare Hillary Clinton: calcare sul suo essere (stata) parte dell’establishment, e questo nel momento del picco del populismo non può che fare il gioco di chi si dipinge come l’anti establishment. Nel caso americano Donald Trump, che non perde mai occasione per attaccare con questo proxy la candidata democratica, calcando la mano su quelli che da una buona fetta di opinione pubblica sono considerati errori da lei commessi mentre ricopriva l’incarico di segretario di Stato sotto l’amministrazione di Barack Obama (è un tema facile anche perché si bersaglia tutto insieme l’apparato avversario). “La politica estera di Hillary Clinton è costata all’America migliaia di vite e miliardi e miliardi di dollari, e ha scatenato l’Isis in tutto il mondo”, ha detto il front runner dei repubblicani una volta. Questo vettore retorico ha anche un aggrappo preciso e ben simbolico, la Libia, il paese crollato nel caos della guerra civile dopo l’intervento occidentale che ha tolto dal potere il rais Gheddafi, dove un alto diplomatico americano è stato ucciso durante le rivolte, dove lo Stato islamico aveva impostato quello che veniva descritto come il suo più forte bastione al di fuori del territorio califfale siro-iracheno, e dove la situazione è tutt’altro che stabilizzata. “La sua (di Hillary. ndr) invasione della Libia ha consegnato il paese verso i barbari dell’Isis”, Donald Trump, 22 giugno 2016.
IL SIGNIFICATO DELLA LIBIA IN HILLARY
“Sono critiche di sostanza”, dice Jim Sciutto, il giornalista della Cnn che segue la national security, perché, continua, in effetti Clinton è stata una delle figure che dall’interno dell’amministrazione americana del 2011 spinse di più per l’intervento; altri, per esempio Bob Gates, ai tempi capo del Pentagono, frenavano invece. Trump sfrutta argomenti retorici a cui, nonostante la generale disattenzione degli americani per tutto ciò che accade oltreoceano, l’opinione pubblica accede: la morte di Chris Stevens, il console americano a Bengasi, durante un attacco organizzato da ribelli filo-qaedisti, è stata una vicenda con pochi precedenti. Una ferita ancora aperta, che da lì in poi è stata anche un paradigma per la politica obamiana del disimpegno e del mantenere al minimo il coinvolgimento. Mercoledì 29 giugno s’è conclusa la lunga e costosa indagine del Congresso sulla vicenda (due anni e 7 milioni di dollari dei contribuenti), e Hillary ne è uscita senza nuove prove di colpevolezza, anche se la politicizzazione del panel l’ha esposta ancora di più alle accuse dei repubblicani, che spingono sul fatto che l’Amministrazione ha sempre cercato di fare pressioni per scrollarsi di dosso ogni genere di responsabilità sull’accaduto, salvandola. Ovviamente dal comitato Clinton s’è risposto alle varie evoluzioni dell’inchiesta sottolineando quella volontà di politicizzazione “anti-dem”, ma quando gli approfondimenti sui fatti del 2012 in Libia si sono incrociati con l’inchiesta sull’Emailgate, l’opinione pubblica (negli Stati Uniti è spesso pigra, si diceva, ma per le presidenziali si risveglia) ha preso nota, e il consenso di Hillary ha vacillato. Non è simpatica, non è affidabile, dicono in molti elettori: anche la vicenda sull’uso indiscriminato dello stesso server per gestire email private e quelle da segretario di Stato s’è conclusa, il dipartimento di Giustizia ha fatto sapere che non la indagherà, recependo a pieno il consiglio del capo dell’Fbi. La relazione di James Comey però non ha salvato completamente Hillary, in quanto l’ha sì scagionata da premeditazioni nella cancellazioni di email sensibili al momento della consegna per l’archiviazione al dipartimento, e dunque le ha tolto il peso del giudizio penale, ma definendo l’atteggiamento di utilizzare un server comune e non quello ad uopo, protetto dalla cyber security governativa, una grave negligenza, il direttore del Bureau è entrato nel dibattito politico. Per un futuro presidente che ha come principale problema l’empatia con le folle, di cui non raccogliere la piena fiducia, la non incriminazione è di certo un successo, ma la “negligenza” è un colpo, elettoralmente parlando; “su quelle mail c’era anche roba che riguardava Stevens” dice più o meno la vulgata anti-Hillary.
BOTTE ALL’ESTABLISHMENT
Sebbene in entrambe le situazioni le posizioni dell’ex capo della diplomazia americana siano risultate pulite, la somma delle due, “Libia più mail“, due elefanti nella stanza, ha contribuito a rafforzare quell’immagine un po’ velata, ambigua, che larghe fette del consenso popolare attribuisco all’establishment e a Hillary. La linea seguita da Trump sulla questione-Libia, la stessa cavalcata per mesi dai repubblicani, è di comodo accesso: l’intervento del 2011 l’ha voluto fortemente quel gruppo di potere che governa adesso e che con la vittoria di Hillary continuerà a guidare il paese, gli stessi che hanno messo a tacere qualsiasi storia compromettente attorno al loro candidato, gli stessi che nel 2011 fecero in modo di ricevere l’appoggio completo della Nato. Il passo successivo per il miliardario americano è altrettanto facile: hanno fallito, avete sotto gli occhi i risultati, la Libia che è ancora una polveriera in cui lo Stato islamico ha aumentato il caos. È un buon paradigma per combattere l’establishment, sia interno, sia quello che gestisce l’ordine mondiale attraverso organizzazioni internazionali come l’Alleanza Atlantica, appunto, già molte volte finita nel mirino di Trump.
TRUMP E LA LIBIA
Capita che l’elettorato abbia memoria corta, seguendo più che altro l’onda dell’attualità, e così difficilmente ricorderà quando il futuro candidato repubblicano disse in un suo video blog: “Gheddafi in Libia sta uccidendo migliaia di persone, nessuno sa quanto male sta procurando, e noi non stiamo spostando soldati per fermare questa orribile carneficina”. Era il 2011. Ossia, ai tempi Trump era un sostenitore dell’azione armata contro il rais libico; sono passati cinque anni e adesso usa quella stessa operazione che aveva di fatto auspicato e sostenuto, come leva per criticare la sua avversaria politica, trasformandola retoricamente in un passo inutile e dannoso per necessità elettorale. Ma nei rapporti di Trump con la Libia c’è di più del cambio di posizione, a cominciare per esempio dal 2009, con la controversa vicenda della tenda berbera montata in attesa di Gheddafi alla tenuta trumpiana di Seven Spring, nel ricco sobborgo di Bedford Hills (contea di Westchester, nord di Manhattan). Il dittatore libico, che era solito dimorare in un accampamento speciale quando si spostava fuori dalla Libia (si ricorderà nello stesso anno l’allestimento a Villa Pamphili), si trovava a New York per presenziare a una riunione delle Nazione Unite e non ricevendo accoglienza da nessun’altra parte, aveva affittato la residenza di Trump; successivamente la città di Bedford ritirò il permesso (c’era una forte pressione dei media, e l’assemblea cittadina sfruttò una normativa che impediva le costruzioni anche momentanee senza autorizzazione, per togliersi dall’empasse).
IL TENTATIVO DI BUSINESS DI TRUMP
Non basta, perché quattro fonti americane e libiche hanno rivelato a Buzzfeed News che c’era ancora di più altro dietro al rapporti di Trump con la Libia e con Gheddafi. Secondo il pr Chris Herbert, il miliardario americano lo aveva ingaggiato per gestire la questione della tenda – i libici avevano pagato già, e erano infuriati per la revoca del permesso – e sfruttare la situazione, e le scuse, per tastare opportunità di business in Libia. Si trattava più che altro di costruzioni sul lungomare. Herbert lavorava per la Brown Lloyd James, società fondata da Peter Brown, ex confidente strategico dei Beatles (“Peter Brown called to say ‘You can make it OK, you can get married in Gibraltar near Spain’” dice la canzone The Ballad of John and Yoko). La società, che ora si chiama BLJ Worldwide, è nota per aver rappresentato in America alcuni clienti particolari, per esempio Asma Assad, la moglie del dittatore siriano Bashar: in quel periodo, insieme alla Livingston Group si occupava di ripulire l’immagine di Gheddafi agli occhi degli occidentali. In quegli anni il petrolio libico scorreva a grosse portate, e la Lia, il grande fondo di investimento statale libico, s’era gonfiato fino a oltre 60 miliardi di dollari: un piatto ghiotto per Trump. Uno dei contatti dell’americano, agganciato attraverso la passione comune per il golf, era Ali Aujali, diventato poi dal 2011 ambasciatore libico negli Stati Uniti e nel 2012, per un anno, ministro degli Esteri del governo di Ali Zeidan. Con Aujali il miliardario americano cercò anche altre entrature, e non è chiaro se qualche affare si sia concluso alla fine, oppure tutto è restato un semplice, controverso tentativo.
CAMBIO DI LINEA
Dunque, sebbene nessuna delle fonti del sito americano citino operazioni specifiche, Trump aveva cercato in più di un’occasione di chiudere contratti con la Libia di Gheddafi, che in quel periodo viveva una fase di riqualificazione, ma che poi dopo due soli anni finì sulla graticola attaccato dall’Occidente – Trump compreso. Nel 2011, in fase di pre-attacco a Gheddafi, Trump sfruttò la situazione a fini propagandistici, dicendosi orgoglioso di essere riuscito a scacciare i libici da Bedford, e che non sapeva che la sua tenuta sarebbe stata affittata dal dittatore: ultimamente ha invertito la linea, ha detto che “andare in Libia” è stato “un errore totale”, ha ricordato l’episodio della tenda (e i suoi buoni rapporti con dittatore libico) qualche settimana fa a “Face the Nation” sulla Cbs con estremo piacere, sottolineando i suoi buoni rapporto col paese nordafricano. E quando John Dickerson, l’intervistatore della Cbs, gli ha ricordato quelle sue vecchie posizioni (“Dici che non era per l’intervento, ma sei stato per l’intervento”: il “Libya quagmire” di Trump l’ha definito l’Atlantic), il candidato repubblicano ha sviato la risposta spostando l’argomentazione sul quanto male il processo successivo sia stato gestito; inutile dire che è una critica alla diplomazia americana dato che, la Libia è ancora al centro delle problematiche mediterranee.
IL PUNTO DI CONTATTO
Però in tutto questo c’è un punto di contatto: nell’aprile del 2011 Trump propose durante un’intervista alla Cnn che Tripoli ripagasse l’aiuto americano (iniziato ufficialmente il 19 marzo di quell’anno) mettendo a disposizione degli Stati Uniti il proprio, tanto, petrolio. Un’idea che qualche mese dopo (c’è un’email leaked a provarlo) venne anche a Neera Tanden, la presidente del think tank pro-Clinton Center for American Progress; il fondatore dell’istituto è John Podesta, figura storica della macchina-Clinton e presidente della campagna Hillary 2016. Tanden, che è spesso indicata nella lista dei papabili Chief of staff se Clinton dovesse entrare nello Studio Ovale, è una dei falchi clintoniani: ai tempi dell’azione in Libia tweettava chiedendo agli “amici liberal” (sottinteso: i critici dell’intervento tra i dem) se avessero in mente un modo migliore di usare il potere americano se non per liberare dei civili dall’oppressione di “un pazzo”. Salvo poi ricredersi una mesata dopo, scrivendo che le cose non stavano andando “tanto bene”: entrambi i tweet erano precedenti alla proposta sul petrolio.
To liberal friends worried re Libya, is there better reason 4 use of US power than 2 protect innocent civilians from slaughter by a madman?
— (((Neera Tanden))) (@neeratanden) 29 marzo 2011
This whole Libya thing doesn’t seem to be working out so well.
— (((Neera Tanden))) (@neeratanden) 21 aprile 2011