Probabilmente rinfrancato dall’accordo “a portata di mano” nell’Unione Europea sul salvataggio delle banche, anche quelle italiane, per sottrarle alla speculazione finanziaria in atto dopo il trauma della Brexit, ed evitare così nuove tensioni economiche e sociali, Matteo Renzi ha ritrovato in una lunga intervista televisiva al Corriere della Sera la fiducia che sembrava appannata nei giorni scorsi. Quando il presidente del Consiglio era apparso meno sicuro di vincere il referendum costituzionale d’autunno. Sul cui esito aveva pur scommesso la sua stessa carriera politica annunciando o minacciando, come preferite, il “ritorno a casa” se sconfitto con la bocciatura della riforma costituzionale che porta ormai il suo nome, e quello della ministra di maggiore fiducia Maria Elena Boschi.
Dopo aver lasciato scrivere, e persino farneticare, di rinvio del referendum persino a dicembre, ma anche oltre, per la paura di perderlo, o per le preoccupazioni del capo dello Stato di lasciare il Paese, in caso di crisi di governo, senza la inderogabile legge finanziaria, il presidente del Consiglio ha detto che non si andrà oltre il 6 novembre, la prima domenica utile dopo il ponte festivo di tutti i santi. Non si è lasciato, fra l’altro, influenzare dal monito curiosamente levatosi proprio dall’interno del Corriere, con la firma di Aldo Cazzullo, per una data troppo vicina alle elezioni presidenziali americane, come se ci potesse essere un vero, serio nesso fra queste e il referendum costituzionale italiano. Come se una crisi di governo a Roma, in caso di sconfitta di Renzi, potesse creare chissà quali e quanti problemi negli Stati Uniti e, più in generale, nel mondo.
Ma soprattutto il presidente del Consiglio ha smesso di fare il pesce in barile, o quasi, sulla ipotesi del cosiddetto spacchettamento del referendum per dividerlo in cinque o ancora più quesiti sulle varie parti della riforma costituzionale, in modo da ridurne l’impatto politico creato con la sua minaccia di dimettersi in caso di sconfitta. Un’alternanza di sì e di no, secondo i sostenitori di questa soluzione, potrebbe dare a Renzi anche la scappatoia per sottrarsi all’impegno di ritirarsi in caso di sconfitta secca, con il no unico e totale alla riforma.
No. Renzi a questo gioco si è deciso a rivoltarsi, dopo avere mostrato una passiva, se non compiaciuta rassegnazione alle decisioni che spettano in questa materia, su richiesta eventuale di un quinto dei deputati e dei senatori, alla Cassazione e, in ultima istanza, alla Corte Costituzionale.
Fatta sempre salva la competenza delle “Corti”, come lui ha chiamato i due organismi chiamati eventualmente a decidere, il presidente del Consiglio ha voluto dire chiaramente e finalmente la sua, liquidando lo spacchettamento ironicamente a ciò che si fa con i pacchi sotto l’albero di Natale.
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In via di principio o di logica, allo spacchettamento del referendum confermativo su un disegno di legge costituzionale riguardante più punti o temi non mancano argomenti, specie quando esposti in buona fede. Come è appena capitato di fare su Formiche.net al senatore Luis Alberto Orellana, del gruppo di Autonomie, mosso dallo scrupolo e dalla volontà di lasciare agli elettori maggiore libertà di scelta, distinguendo ciò che a ciascuno dei votanti piace della riforma da ciò che non piace, ammesso e non concesso che sia facile scorporare in tanti quesiti, cinque e forse anche più, la quarantina di articoli della Costituzione interessati alle modifiche apportate dal Parlamento.
Ma la riforma è stata approvata dalle Camere appunto in una unica soluzione, considerata “organica”, tale cioè da correlare una modifica all’altra. “La Costituzione ha delle regole”, ha giustamente e finalmente – ripeto – ammonito il presidente del Consiglio rivolgendosi così anche agli organismi istituzionali chiamati eventualmente a pronunciarsi. E al cui verdetto egli di certo non potrebbe sottrarsi. Ma sarebbe stato curioso se egli si fosse ancora sottratto anche al diritto e al dovere di dire alta e forte la sua.
Nella ipotesi dello spacchettamento c’era e c’è un sottinteso politico, un aspetto manovriero da non sottovalutare. C’era e c’è, in particolare, il tentativo di sminuire, depotenziare, dimezzare l’immagine di Renzi: il tentativo, in particolare, di inchiodarlo a Palazzo Chigi in caso di parziale vittoria o sconfitta, con qualche sì e qualche no alla riforma, in una situazione d’irreversibile logoramento. Sarebbe la prospettiva dell’”arrosticino”, come l’hanno definita al Foglio di Claudio Cerasa e di Giuliano Ferrara gli amici di Renzi.
Lo spacchettamento del referendum costituzionale sarebbe infine un cambiamento delle regole in corso di partita: cosa semplicemente arbitraria, anche se dovesse portare i timbri delle “Corti”. Sarebbe peraltro un torto agli elettori del 2006, chiamati a pronunciarsi senza potere spacchettare niente sulla riforma costituzionale approvata in Parlamento dalla maggioranza di centrodestra, e bocciata in via referendaria.
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Sulla prospettiva di cambiare la nuova legge elettorale della Camera, chiamata Italicum, Renzi è tornato a ricordare l’ovvio diritto del Parlamento di intervenire. Un diritto che al momento non corrisponde però ad un diritto o a un dovere d’intervento del presidente del Consiglio e dal suo governo, dove pure non mancano esponenti, come Dario Franceschini, di orientamento diverso.
Anche questo, pur se non così esplicito, è stato un utile chiarimento. Anche a costo, forse, di deludere l’editore e il fondatore della Repubblica di carta, Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari. Che sono pronti a votare no alla riforma costituzionale se prima del referendum non ci fosse quanto meno un impegno chiaro e solenne del governo a cambiare una legge elettorale che avrebbe, fra i vari inconvenienti, quello di assicurare la prossima volta ai grillini la vittoria, col premio di maggioranza alla lista più votata, e non alla coalizione.
“Il mio successore non sarà Luigi Di Maio o un altro dei suo movimento”, ha detto fiduciosamente Renzi mentre la sindaca pentastellata di Roma Virginia Raggi contava i topi fra le immondizie di Roma e il vice presidente della Camera tirava le somme poco incoraggianti della sua visita in Israele, condotta nella presunzione di avere in tasca la soluzione magica della questione palestinese.