L’articolo di Gustavo Piga tratto dall’ultimo numero della rivista Formiche
A cos’è dovuto il perdurante ritardo di (magra) crescita dell’Italia rispetto al resto dell’area euro? Alla performance degli investimenti – privati e pubblici – nel nostro Paese rispetto a quello degli altri Stati membri dell’Unione. Secondo i dati del Centro studi Confartigianato, tra il 2005 e il 2015 in Italia si è registrato un crollo del 26,3% degli investimenti, pari a -92,5 miliardi di euro a prezzi 2010. Nello stesso periodo, nell’area euro il ritardo accumulato è sceso solo del 3,5%. L’Italia fa peggio della Spagna, a fronte di una tenuta in Francia e una crescita nel Regno Unito e in Germania. Perché le nostre imprese non investono più? Una combinazione perversa dei due mali che ci affliggono: il pessimismo endemico dovuto alla carenza di domanda interna nel Paese, a sua volta causato dall’austerità europea imposta all’Italia, e la mancanza di riforme nella Pubblica amministrazione. Il primo porta le imprese a non sostenere scommesse di investimento visto che sono costi certi da sostenere oggi a fronte di ricavi futuri altamente incerti per carenza di clienti potenziali; la seconda rende costosissimo operare in Italia e fa prediligere la stasi in attesa di tempi migliori o la delocalizzazione.
Non dovrebbe stupire dunque se le cose non volgono al bello neanche in prospettiva: la nota di aggiornamento al Def del governo del 18 settembre 2015 ricorda come per il 2019 il ritardo maggiore sarà quello degli investimenti in costruzioni (al di sotto del 32,1%) e per i macchinari e attrezzature (-11%). A questa carenza di investimenti privati ovviamente si aggiunge quella di investimenti pubblici. Anch’essa causata dall’austerità europea, ovviamente, con le sue restrizioni a perseverare nei tagli di spesa pubblica. Ma anche dalla carenza di riforme nella Pa, che porta l’Europa a non credere che eventuali investimenti pubblici in Italia genererebbero vera produzione, ma piuttosto fantomatiche cattedrali nel deserto. Tre imprese su quattro considerano inadeguate le nostre strutture, il 76% in Italia vs il 46% dell’Ue a 28. Dal 2009 la quota degli investimenti pubblici sul Pil è scesa dal 3,4% al 2,2% e l’attuazione del Piano Juncker, anche quando completa, non sarebbe che una goccia d’acqua che non soddisfa la sete infrastrutturale del Paese.
Non basta dire che bisogna investire. Si deve anche dire dove e come. Dove? Viviamo in una società che genera una mole mostruosa di informazione, ma non di conoscenza. In realtà la conoscenza maggiore c’è eccome, ma viene elaborata per la gran parte dentro le mura, o meglio dentro gli elaboratori di multinazionali e distretti industriali dell’informatica, spesso fuori dal Paese. È una conoscenza privata – o una privatizzazione della conoscenza – quella a cui assistiamo, spesso diretta a manipolare le preferenze dei consumatori per accelerare la massimizzazione del profitto (basta ascoltare il TED talk di Alessandro Acquisti in quel di Carnegie Mellon University per comprenderlo: https://goo.gl/BG8WNO). Non è conoscenza pubblica, come quella che creammo nel dopoguerra sui banchi delle nostre scuole, alfabetizzando con un massiccio investimento pubblico intere generazioni, modernizzando un Paese in grave ritardo e favorendo così la massiccia crescita di investimenti privati da parte di imprese che potevano contare su una forza lavoro formata e abile al lavoro manuale, ma anche intellettuale. Oggi, un settore così critico per le future innovazioni, quello dei big data e dell’informatica, dovrebbe essere in parte pubblicizzato, fatto cioè divenire fattore di sviluppo della nostra amministrazione pubblica, con investimenti pubblici, appunto, volti a formare innumerevoli competenze interne, acquisire capacità di elaborazione dei dati e di intervento sulla base di quanto questi dati rivelano sulla realtà circostante – che si tratti di regolarità empiriche della criminalità mafiosa, dell’evasione fiscale o dei luoghi in cui intervenire immediatamente in caso di disastro naturale. Una volta fatto ciò la qualità dell’azione pubblica risulterebbe talmente tanto elevata da stimolare una dose di massiccia di investimenti privati, la cui profittabilità sarebbe supportata dalla modernizzazione del capitale tecnologico a disposizione di tutto il Paese, e non solo di una parte di esso. A oggi purtroppo all’interno della Legge di stabilità 2015 risultano pervenuti solo i tagli straordinari e a casaccio alla spesa per l’informatica.
Come raggiungere l’obiettivo? La rivoluzione capace di restaurare ottimismo e investimenti deve puntare a una rivoluzione di frugalità, che va intesa non come divieto di spesa quanto come monito a spendere bene, in maniera essenziale, senza sprechi. Anche perché senza frugalità pubblica, senza aver dimostrato di saper spendere bene, nessun investimento pubblico addizionale sarà concesso dalla severa Unione europea, e questo, come visto sopra, danneggia le imprese private e la loro voglia di investire. Uno Stato che spende male non sostiene inoltre in alcun modo la produttività del suo settore privato, scoraggiando nuovamente gli investimenti. Per divenire frugali e per spendere bene ci vogliono non solo valori ma anche competenze, e dunque bisogna investire anche in queste, come previsto in parte dal nuovo Codice degli appalti. Ma si deve fare molto di più. Tanti investimenti pubblici per ottenere qualità della macchina pubblica – ecco cosa ci vuole – che permettano ulteriori investimenti pubblici di qualità nelle infrastrutture critiche del Paese che divengano, infine, investimenti privati e sviluppo pieno e sufficientemente omogeneo dell’Italia.
Gustavo Piga (Docente di Economia politica presso l’Università di Tor Vergata)