Brexit ha prodotto effetti contraddittori. In patria ha determinato il completo azzeramento del gruppo dirigente inglese. Guai tanto nel Partito conservatore, quanto tra i laburisti. Con Theresa May, la nuova leader dei Tories, chiamata a svolgere più la funzione del commissario liquidatore, che non quella di primo ministro. E le dimissioni del trionfatore assoluto dello scontro appena terminato. Quel Nigel Farage, capo dell’Ukip, che lascia la leadership del partito; pur rimanendo, seppure per poco, membro del Parlamento europeo. Un suicidio collettivo, che dovrebbe far riflettere chi auspica, fuori da quei confini, di ricalcare quei passi o la distruzione dell’euro.
Non vogliamo minimamente fare il conto del dare e dell’avere dal punto di vista economico e finanziario. Sono innanzitutto gli aspetti politici che vanno valutati, alla luce dell’esperienza inglese. Bene che vada, gli eventuali e ipotetici vantaggi della fuoriuscita dalla moneta europea si vedrebbero solo dopo un notevole intervallo di tempo. Nel breve periodo, invece, i costi di transizione sarebbero subito evidenti. Agli apprendisti stregoni consigliamo, quindi, prudenza, se non vogliono fare la fine di David Cameron o di Jeremy Corbyn, costretti, intanto, a lasciare. Poi si vedrà.
Se così stanno le cose, ha senso preoccuparsi di una simile improbabile tempesta? Se la crisi dell’euro dovrà essere, non sarà certo qualche politico italiano a determinarla, ma la risultante di errori e contraddizioni che vanno oltre le capacità del singolo. Ed allora perché parlarne? Per scongiurare possibili abbagli ed evitare di sedimentare nella testa dell’opinione pubblica italiana possibili illusioni.
Sostiene, con dovizia di dati e particolari, Unimpresa: “Fuori da Eurozona + 1 milione posti (di lavoro) da 2008 a 2015”. Nella zona della moneta unica l’occupazione é diminuita del 2,21 per cento; negli altri Paesi europei, che sono rimasti fuori, la crescita é stata dell’1,4 per cento. Ergo: l’euro fa male. Prima si torna alla vecchia lira e prima poniamo fine a questa lunga agonia. É proprio così? Se la risposta fosse positiva, gran parte del pensiero economico più recente, e molte valutazioni di carattere geopolitico, dovrebbero essere mandate al macero.
Prima di organizzare un grande rogo é bene fermarsi un momento e chiedersi: qual é il valore della moneta. Chi è come si determina? La moneta, da che mondo é mondo, ha sempre riflesso la forza del Paese d’appartenenza. Da un punto di tecnico questa relazione si sostanzia nell’andamento della bilancia dei pagamenti. Se un Paese è forte – ossia competitivo – riesce a conquistare i mercati esteri. Le sue esportazioni crescono più delle importazioni. Si verifica un surplus nelle partite correnti della bilancia dei pagamenti che spinge a far rivalutare la moneta. Il contrario nel caso opposto.
L’euro, a differenza delle altre monete, non riflette la forza o la debolezza di un singolo Stato, ma di diciannove Paesi: tanti sono i membri dell’Eurozona. Anche in questo caso conta l’andamento della bilancia dei pagamenti, che per l’Eurozona é positiva: pari al 3,9 per cento del Pil, nel 2016, secondo le valutazioni della Commissione europea. Il che spiega la sua tendenza a rivalutarsi nei confronti del dollaro (rapporto 1,10) nonostante il maggior dinamismo economico degli States. La forza dell’euro, rispetto alle altre monete, è quindi data da un surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti che ammonta, secondo le previsioni della Commissione, a 390 miliardi nel 2016. Ad esso contribuiscono, chi più chi meno, tutti i diversi Paesi, con un’eccezione vistosa, rappresentata dalla Germania che, da sola, presenta un surplus di 269,6 miliardi, pari a circa il 70 per cento del totale.
Ed ecco allora la dimostrazione del famoso teorema di Trilussa. Il valore dell’euro è dato da una media, in cui confluiscono i dati relativi a ciascun Paese. Alcuni presentano surplus ancora maggiori, in rapporto al Pil, come l’Olanda. Altri invece sono in deficit. Se la moneta unica svanisse d’incanto e si tornasse alle monete nazionali, assisteremmo ad un grande sommovimento valutario, in grado di ricreare la giusta equazione tra forza intrinseca di ciascun Paese e valore della nuova moneta. Alcuni Paesi dovrebbero rivalutare, altri svalutare. La Germania dovrebbe essere tra le prime. Il nuovo marco, rispetto al dollaro, per fare un esempio, non potrebbe presentare una differenza pari solo al 10 per cento. Com’è oggi con l’euro. Ma la rivalutazione dovrebbe essere molto più consistente. Elevata fino al punto da ridurre quel surplus di circa 270 miliardi a poca cosa.
Ecco allora il vantaggio competitivo che i tedeschi non vogliono perdere. Hanno un’economia molto più forte della moneta con cui commerciano a livello internazionale. Faranno, pertanto, di tutto per difendere uno status quo, che comporta loro una sorta di diritto di signoraggio. La ragione vera di un euro che premia alcuni e penalizza altri. Si potrebbe aggiungere: ma solo adesso vi accorgete di questi squilibri? C’è una ragione specifica per lanciare un grido dall’allarme. Prima della grande crisi del 2007, l’Eurozona tendeva a convergere. I Paesi più forti concedevano spazi di mercato ai Paesi più deboli e tutti potevano manifestare il loro grande amore per la costruzione europea.
Dal 2008 in poi, questa tendenza si è rovesciata. Ora i Paesi più forti diventano sempre più forti; mentre i più deboli – soprattutto il fronte sud – arrancano. Dalla convergenza si è passati alla brusca divergenza. Ed è questo ribaltamento nel trend che alimenta da un lato il populismo, dall’altro la chiusura a riccio in difesa del proprio spazio vitale. Una frattura che mina alla radice quell’idea dell’Europa, che è stato il lascito dei Padri fondatori. Farà schiantare l’euro? Difficile fare previsioni. Quel che è certo è che non sarà la decisione di questo o di quel piccolo Paese. Se si arriverà a quel punto, saremo ancora una volta le vittime di una maledizione storica che perseguita il vecchio Continente da oltre un secolo. Quella legata al destino di una grande Paese, come la Germania, capace di vincere alcune battaglie, ma non la guerra.