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In Europa la lotta a Isis non l’abbiamo ancora cominciata

Stefano Cingolani

Che fare dopo Nizza? La stessa domanda che si è posta dopo Charlie Hebdo, dopo Bruxelles, dopo Parigi. Nessuno ha la risposta, ma si rincorrono ricette diverse che hanno due punti in comune: la questione sociale, per così dire, e la questione generazionale. L’acqua in cui nuotano i pesci è rappresentata dai figli degli immigrati che non si sentono integrati e non si riconoscono nella società francese, belga, europea in generale. Dunque bisogna investire massicciamente in strutture, infrastrutture, scuole, posti di lavoro. Tutto giusto. Anche l’Italia ha un piano che si chiama integrazione nella sicurezza varato nel 2011 e ci sono almeno 11 milioni di euro stanziati. Ma la risposta socio-economica non basta.

Una lettura economicista, tardo-marxista, è riduttiva se non proprio deviante. Quella parte della popolazione, per lo più giovane, non è composta da immigrati che vengono da qualsiasi parte del mondo, ma da islamici originari dal Nord Africa o dal Medio oriente. Non si sentono francesi, belgi, europei non perché odiano la burocrazia di Bruxelles che vuole mettere sotto controllo il camembert o le lumache stufate. E nemmeno perché detestano la globalizzazione. Ma perché non riconoscono i valori sui quali sono fondati i regimi liberal-democratici, laici, ma di matrice cristiana che prevalgono in Europa occidentale.

Vogliamo cominciare a dire le cose con il proprio nome e a definirne più esattamente i contorni? Contro questo rifiuto non basta costruire buoni alloggi, scuole serie, insegnare la lingua e dare lavoro. Lo ha fatto e bene la Svezia, ma anche lassù l’integrazione non è riuscita. Anche lì, le banlieu dove vivono gli immigrati sono in rivolta. Anche lì le donne musulmane, e in particolare le giovani, vanno in giro totalmente coperte.

E’ questo il nocciolo amaro che dobbiamo affrontare. Come non lo sappiamo. Probabilmente non c’è una soluzione. Non sono i muri né le deportazioni, già oggi la maggior parte di loro vivono separati. Nei paesi in cui questa frattura è minore, come l’Italia, le tensioni esistono, ma sono gestibili. Finora. Non facciamoci facili illusioni.

Sulla Stampa il direttore Maurizio Molinari parla di fare della “integrazione nella sicurezza” una nuova dottrina. Non spiega come. Si può immaginare trasformandola nella cornice teorico-pratica di una serie di politiche e di misure anche di polizia. Lo stesso Molinari trascura l’aspetto ideologico-religioso, la “battaglia culturale” che va condotta perché l’integrazione nella sicurezza deve avere come premessa l’accettazione del patto fondamentale di ogni nazionale, basato sui valori comuni e sulle costituzioni che ne sono plasmate. Ma forse è implicito nella formula usata.

E’ molto probabile che essa implichi anche nuove norme di legge che ogni paese ha finora evitato. Qui l’Italia ha qualcosa da suggerire se non proprio da insegnare. Per esempio, quel che è stato fatto contro il terrorismo rosso e nero degli anni ’70-’80 e gli strumenti utilizzati ad hoc per combattere la mafia ispirati a loro volta dagli Stati Uniti. In questo modo sarebbe possibile rafforzare la collaborazione con le comunità musulmane affinché esercitino un controllo capillare. Non solo, i servizi segreti, la polizia e la magistratura avrebbero mezzi di natura straordinaria per intervenire in modo preventivo.

La questione è controversa e anche in Italia ci sono fior di leader del partito delle toghe che sono contrari. Senza contare il grande dibattito teorico tra libertà e sicurezza, due variabili della vita in comune, due incognite della polis si potrebbe dire, senza soluzione finale, ma che possono trovare di volta in volta dei punti di equilibrio per quanto mobile e instabile esso sia.

Tutto ciò non evita che la battaglia sia lunga, aspra, incerta. Ma non ci lascia disarmati. L’importante è identificare bene il nemico. Contro lo Stato islamico ci sono oggi successi notevoli che fino a qualche mese fa tutti consideravano impossibili. In fondo è stato sufficiente scegliere bene il bersaglio e concentrarsi su di esso anche rinunciando, con realismo, a obiettivi più ampi e ambiziosi. Il Califfato è in rotta, se le cose continuano così fra qualche mese sparirà là dove si era insediato, cioè nel Levante, quella vasta area che attraversa parte della Siria e dell’Iraq. La lotta sul nostro territorio, lo scontro con il “nemico della porta accanto” è senza dubbio ancor più difficile, più insidiosa, densa di rischi anche per il nostro stesso stile di vita. Tuttavia dobbiamo essere onesti: non l’abbiamo ancora cominciata. Non lo ha fatto nemmeno la Francia, il paese oggi più bersagliato e quello forse più a rischio.

Lo pagherà François Hollande che sarà ricordato per le catastrofiche sconfitte su questo fronte. E forse lo pagheranno i francesi. Vedremo cosa accadrà alle elezioni del prossimo anno. In ogni caso sarebbe davvero irresponsabile, sarebbe spararsi sugli alluci sfruttare in modo partigiano e politicista una crisi che, se non affrontata alla radici, può travolgere tutti. Nessuno si illuda che Marine Le Pen o chi per lei abbia la soluzione nella borsetta.

Non ce l’aveva nemmeno Nigel Farage per la Brexit che pure è un affare molto minore rispetto alla sfida che l’Islam radicale ha lanciato corto tutti noi.


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