La parola riforma nel linguaggio politico è tra le più antiche e usate. Basta ricordare la riforma della costituzione ateniese, la riforma gregoriana, la riforma protestante, eccetera. La storia della nostra democrazia è iniziata con una riforma, quella che ha portato lo Stato dalla Monarchia alla Repubblica, mutando l’assetto complessivo delle istituzioni del Regno d’Italia in quelle adesso in vigore.
Dopodiché l’idea di apportare riforme alla Costituzione è comparsa ciclicamente per decenni, fino ad arrivare dalla Bicamerale alla riforma Berlusconi, abrogata dal referendum, e infine alla riforma Renzi, su cui il popolo italiano si pronuncerà con un sì o un no a ottobre.
Fermo restando che ogni ipotesi di cambiamento della forma politica incontra costantemente resistenze e opposizioni, corporative e non sempre sensate, in questo caso l’Italia si trova davanti ad una situazione particolarmente complessa. Tutte le bozze di modifica precedenti, infatti, riguardavano sempre la correzione di un’anomalia concernente la debolezza dell’esecutivo, così voluta dai padri costituenti per reazione al fascismo. Il presidente del Consiglio ha poteri di governo, ovviamente, che sono tuttavia vincolati alle dinamiche del Parlamento. Inoltre la funzione di capo del Governo è separata da quella di capo dello Stato: limitata, insomma, sia verso il basso e sia verso l’alto.
Il bicameralismo, oltre ciò, rende la pratica parlamentare di approvazione delle leggi molto lunga, laboriosa, con una serie di iper controlli, divenuti ormai un po’ anacronistici e farraginosi, tra l’altro sottoposti di continuo, nel risultato finale, al giudizio ultimo della Corte Costituzionale.
Snellire le procedure è indispensabile, ma è essenziale anche garantire che il Parlamento sia luogo di discussione pluralista tra le forze politiche. Di qui sorgono alcuni dubbi sulla razionalità della riforma Renzi.
Li riassumo in tre punti fondamentali.
Il primo riguarda il superamento del bicameralismo. A conti fatti, se passasse il referendum, noi non ci troveremmo davanti ad un auspicato monocameralismo, ma ad un bicameralismo imperfetto, nel quale uno dei due rami, il Senato, perderebbe l’aggancio democratico, trasformandosi in una sorta di gran consiglio delle autonomie locali. Che funzionalità ha mantenere in piedi un Senato del genere, per altro corrispondendo sempre ad una voce costituzionale che lo considera un soggetto elettivo?
Il secondo riguarda la Camera dei deputati. Ogni sistema costituzionale può preferire una logica parlamentare o presidenziale. Quello che appare incomprensibile, in questo caso, è che invece di rafforzare il governo, con le sue prerogative esecutive, nella riforma Renzi è mantenuta la centralità del Parlamento, trasformato però con l’Italicum (se non sarà modificato) in una specie di gabinetto del re. Vi sarà cioè sostanzialmente un unico partito con una maggioranza assoluta cui corrisponderà un governo di maggioranza che non avrà più bisogno della fiducia del Senato. Perché, in fin dei conti, cancellare la logica del Parlamento invece di rafforzare l’indipendenza dell’esecutivo?
Comunque si guardi questo particolare nodo della riforma si rivela irricevibile. Si passa cioè da un Governo paralizzato dalle logiche parlamentari ad un Parlamento ridotto e vincolato in modo monocratico all’esecutivo, come una camera di consiglio di Palazzo Chigi. Che senso ha una scelta del genere?
La terza considerazione riguarda il tasso di democrazia che questa riforma contempla. Mentre ora si hanno due camere, espressione elefantiaca di un iper pluralismo, domani ve ne sarà una sola e monocolore. La logica di un presidenzialismo parlamentare di questo genere sfugge ad ogni ragionevolezza e non conosce precedenti giuridici: non dà garanzie di distinzione tra la forza dell’esecutivo, che dovrebbe essere autonoma e indipendente dal legislativo, e non dà garanzie di un aperto dibattito pluralista, anima ispiratrice della democraticità del sistema legislativo.
Dispiace dirlo, ma il combinato disposto di Italicum e riforme costituzionali è un pasticcio, adibito a creare automaticamente tantissimi inconvenienti e riserve, aprendo un baratro sulla garanzia di efficienza della maggioranza e sulla tutela e il ruolo di controllo delle minoranze. Disegnato dal Pd come un vestito da indossare, adesso diventa improvvisamente inadatto se sarà indossato dal M5S: già questo dice tutto quello che si può dire in merito alla lungimiranza di questa riforma. Il fatto vero è, in definitiva, che queste modifiche nel loro insieme non sono convincenti e non appaiono ragionevoli.
Ad essere sbagliato, oltretutto, è il sistema stesso delle riforme a maggioranza che ogni volta si finisce per perseguire: sia, come in questo caso, quando se ne faccia propugnatore il Pd, sia, come avvenuto dieci anni fa, quando se n’è fatto propugnatore il centrodestra e sia, come sarà in futuro, se tenterà la stessa strada il M5S.
Aristotele insegnava che cambiare una costituzione è cambiare uno Stato. Si tratta cioè dell’atto più solenne che un popolo sovrano possa decidere. Cambiare uno Stato, infatti, si fa unicamente quando le condizioni storiche lo rendono possibile. E il renderlo possibile si dimostra nell’unanime convergenza di tutti i cittadini e delle relative forze politiche ad un disegno costituzionale organico e coerente, sentito e condiviso senza dubbi di sostanza.
Qui abbiamo invece che in seno alla maggioranza stessa, e all’interno del Pd, si chiede una modifica dell’Italicum e non si considera adeguatamente positiva questa riforma costituzionale. Ecco perché non è assurdo pensare che in caso di vittoria del sì ci troveremo davanti non a una nuova Costituzione, ma a una Costituzione impossibile, irriconoscibile e soprattutto non legittima per la maggioranza delle forze politiche oggi rappresentate in Parlamento.