Micah Xavier Johnson, l’uomo che ha sparato durante una manifestazione pacifica a Dallas ammazzando cinque agenti e ferendone altri sette, è stato ucciso qualche ora dopo l’assalto da un robot della polizia. Il venticinquenne di Mesquite (150mila abitanti appena fuori alla cerchia urbana della città texana) è ritenuto l’unico responsabile dell’attentato contro la polizia: riservista dell’esercito, rientrano nel 2014 dall’Afghanistan, tipo chiuso lo descrivono i vicini, più attivo nella vita digitale dei social network che in quella di carne-e-ossa del quartiere. Per colpire ha usato tecniche militari imparate nei corsi dello US Army, per essere eliminato è stata scelta un’altra tecnica militare, diventata molto in voga durante la presidenza di Barack Obama: le azioni affidate alle macchine.
UN’AZIONE NECESSARIA
Quando Micah s’è asserragliato nel parcheggio multi-piano dell’El Centro, in piena Downtown Dallas, i negoziatori delle unità speciali inviati sul posto hanno capito che sarebbe stata una missione complicata: non voleva arrendersi, non voleva trattare, aveva solo l’obiettivo di uccidere quanti più poliziotti bianchi possibile, ha riferito. Non sono chiare perfettamente le dinamiche, ma durante le varie sparatorie, i poliziotti devono aver capito che l’ex soldato si trovava in una posizione di vantaggio tattico. Un blitz li avrebbe esposti ad altri rischi, ha spiegato il capo della polizia David Brown in conferenza stampa, e – complice sicuramente la componente emotiva legata agli otto colleghi rimasti a terra – da questo è nata l’idea di lanciargli contro un robot: “Non avevamo altre opzioni” ha detto captain Brown.
LA DINAMICA E I PRECEDENTI
Sul braccio meccanico dei MARCbot, nome tecnico del mezzo che probabilmente è stato usato venerdì in Texas (sono quelli che normalmente vengono utilizzati dagli artificieri per ispezionare e poi far brillare bombe in sicurezza, la EOS di Dallas ne aveva acquistati alcuni nuovi a maggio), può essere montato un piccolo ordigno, che di norma ha il compito di innescare la detonazione dei dispositivi più grossi da obliterare. Nel caso di Dallas, il robot a controllo remoto ha invece trasportato “il piccolo ordigno” nel punto in cui Johnson era trincerato e l’ha fatto esplodere.
Gli analisti militari americani sono tutti concordi nel dire che è la prima volta che questa tecnica viene utilizzata sul suolo americano, mentre Peter Singer, un esperto di robotica e tecnologie militari, ha ricordato che è stata spesso utilizzata in Iraq; nel suo saggio “The Changing Character of War” descrive come i soldati americani, ai tempi dell’Occupazione, usavano i MARCbot per trasportare mine antiuomo Claymore da piazzare fuori le porte degli edifici in cui si svolgevano le riunione dei jihadisti, al costo di circa 5000 dollari ogni missione, che è più o meno il valore delle parti del dispositivo che vengono danneggiate – il costo complessivo del robot è di 8mila, li producono diverse ditte del settore, per esempio la Northrop Grumman. Kelsey Atherton, che scrive di armamenti per il bimestrale americano Popular Science, ha postato su Twitter la foto di un antenato degli attuali robot, un dispositivo usato dall’esercito nazista durante la Seconda Guerra Mondiale per trasportare bombe sotto i carri armati nemici; ad aprile scorso un MARCbot è stato usato dalla California Highway Patrol per consegnare una pizza e un telefono a un uomo armato che si era chiuso in un passaggio dell’autostrada, il cibo e l’apertura dei negoziati hanno contribuito a sbloccare la situazione.
IL DIBATTITO
La decisione adottata dalla polizia di Dallas, per quanto dovuta alla necessità di salvaguardare l’incolumità degli agenti, ha aperto discussioni. Si parla di eccessiva militarizzazione delle forze dell’ordine: se ne discute da diverso tempo, e le polemiche si legano al riciclo di mezzi da combattimento usati in Iraq e Afghanistan, passati dall’esercito alle polizie locali. Il compito dei poliziotti, secondo quanto detto al New York Times da Rick Nelson, ricercatore presso il Centro di Studi Strategici e Internazionali ed ex funzionario dell’antiterrorismo del Consiglio di Sicurezza nazionale, non è utilizzare la forza ad ogni costo: “Nella guerra, l’oggetto è quello di uccidere” ha detto, “le forze dell”ordine però hanno una funzione diversa”. Da qui si accede ai temi che hanno caratterizzato il dibattito sull’uso dei droni, prerogativa obamiana della lotta al terrorismo fatta “in sicurezza”; si ricorderà la copertina dell’Atlantic in cui il presidente veniva definito “Drone Warrior”. Un drone elimina un obiettivo senza dare garanzie di difesa al sospetto, è una sentenza definitiva, una condanna a morte, un assassinio deciso dallo Stato, arrivano a dire i critici, e questo nel regno delle libertà, l’America, diventa ancora più forte se il soggetto eliminato è un cittadino statunitense. La decisione di Obama di far uccidere da un drone-strike Anwar al Awlaki, prominente leader qaedista, predicatore anti-occidentale di riferimento, per esempio, s’era portata dietro anni fa un dibattito pubblico solo perché l’uomo aveva doppio passaporto yemenita e americano. Nel 2013, il senatore repubblicano Rand Paul, ha sostenuto un discorso di ostruzionismo per 13 ore bloccando la conferma di John Brennan, il candidato del presidente Obama per dirigere la CIA, perché la Casa Bianca si rifiutava di dire se riteneva possibile l’uso dei droni militari per uccidere i sospetti con cittadinanza americana sul suolo americano.
GLI INTERROGATIVI AL CENTRO DEL DIBATTITO
È il tema del controllo il punto del dibattito in corso: quanto sicura era la linea di comunicazione tra il robot e il suo controllore, o tra il drone e il pilota? C’era la possibilità che la bomba esplodesse prematuramente o per caso? Nel caso degli attacchi con i droni, più volte si sono dovuti raccogliere i cocci di azioni fuori bersaglio, per esempio. E come può un negoziatore sapere che la negoziazione è inutile se non è fisicamente nella stanza con un sospetto? Ossia, chi decide che è arrivato il momento di passare all’uccisione?