Nel quindicesimo anniversario della morte di Indro Montanelli, spentosi a Milano a 92 anni il 22 luglio 2001 scrivendosi da solo il necrologio di commiato dai lettori, mi è toccato di leggerne rievocazioni che mi hanno confermato la convinzione sempre avuta che i grandi personaggi – e Montanelli certamente lo fu – rischiano la loro reputazione più da morti che da vivi. Costretti a subire inermi, nella fossa o nelle urne cenerarie, torti immeritati. Che sono spesso aggravati dalla presunzione di chi li commette di onorarne meglio la memoria, quindi a fin di bene.
Mi perdonerà il collega ed ex parlamentare dell’allora Pdl Giancarlo Mazzuca se ho qualche difficoltà a riconoscere Montanelli davvero smanioso, dopo la clamorosa rottura consumatasi nel 1994, di difendere Silvio Berlusconi, come lui lo ha rappresentato. Indro non era uno capace di fare cose di cui non fosse convinto, neppure dopo averlo detto per qualche paradosso, o per il gusto di stupire il suo interlocutore di turno. No. Tra Montanelli e Berlusconi si era consumata una rottura vera, irrimediabile: apparentemente più politica che personale ma in realtà più personale che politica. E quelle personali sono le rotture più profonde.
Montanelli, contrario all’impegno politico di Berlusconi vedendovi il rischio di esserne o solo di apparirne condizionato, non perdonò all’allora Cavaliere soprattutto di avere voluto fare ad un certo punto davvero l’editore del Giornale, dopo averlo acquistato in circostanze, diciamo così, difficili per la testata fondata nel 1974. L’accordo fatto a suo tempo fra i due, tradottosi in una lettera ormai arcinota, era che Berlusconi facesse l’editore per gli oneri economici che gli derivavano e lui, Montanelli, continuasse ad esserne e farne il “padrone”.
E’ vero, come ha scritto Mazzuca, che Montanelli riconosceva a Berlusconi il merito e la generosità di avergli salvato Il Giornale ormai a rischio di chiusura, ma è anche vero che lui, sempre Montanelli, era convinto di avere ripagato tanto merito e tanta generosità concedendogli “l’onore”, come gli capitava spesso di dire, di diventare il suo editore. Per cui all’uno toccava di pagare e all’altro di comandare. Quando questo rapporto, un po’ da portiere di notte, titolo di un celeberrimo film, s’incrinò e si ruppe, poco importa se più per colpa di uno o dell’altro, non ci fu più nulla da fare.
L’unico rapporto di cui io ricordi una ricucitura poi cercata da Montanelli fu quello, interrottosi nel 1983, con Enzo Bettiza. Che bisogna non avere conosciuto e non conoscere ancora per scriverne, come ha fatto Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, ricordando anche lui Montanelli a 15 anni dalla morte, come di uno “messo alla porta”, insieme col sottoscritto: “troppo filosocialisti”, ha scritto Travaglio, “per i gusti” montanelliani. E qui mi tocca scrivere purtroppo anche per fatto personale, sperando che sia l’ultima, vista la pervicacia con la quale il direttore del Fatto Quotidiano se ne occupa ogni volta che gliene capita l’occasione.
++++
Filosocialisti, Bettiza ed io, lo eravamo davvero da quando Bettino Craxi aveva restituito al Psi l’autonomia dal Pci compromessa da Francesco De Martino, suo predecessore alla segreteria del partito. Anche a Montanelli all’inizio piacque Craxi, prima di parlarne e di scriverne, nei ricordi di Travaglio, come di un Mussolini “di cartone”.
Il guaio di Craxi, nei rapporti con Montanelli, era quello di trasferire la sua ossessione dell’autonomia ad ogni livello, non solo a quello di partito. Per cui Bettino inorridiva all’idea di fare inchini a qualcuno, fosse pure Montanelli. Al quale invece gli inchini piacevano, eccome: anche quelli indiretti, di seconda mano, riferitigli ad arte per sedurlo.
Fu proprio Montanelli a raccontarmi una volta, per spiegare l’improvvisa decisione di dare un po’ di credito politico a Ciriaco De Mita dopo averne duramente contrastato l’elezione a segretario della Dc, di avere saputo dal comune amico Fabiano Fabiani quanto la signora De Mita fosse lettrice dei suoi libri, tutti conservati ed esposti nella libreria di casa. “E poi – mi aggiunse Montanelli come per farsi perdonare questa debolezza – non dimentichiamoci, caro Franceschino, che i nostri lettori votano più per la Dc che per il Psi”.
Craxi non aveva solo il torto di non andare a riverire Montanelli nel suo ufficio o di invitarlo a pranzo o a cena in qualche ristorante, ma osava profittare di qualche occasionale incontro con lui nell’aeroporto di Linate per contestargli qualcosa che non gli era appena piaciuto di leggere sul Giornale. Una volta Montanelli me ne riferì furente, appena arrivato nella redazione romana, sino ad affidarmi un messaggio che mi mise, lo confesso, in imbarazzo perché il mio rapporto con Bettino non era in fondo molto diverso dal suo, anche se noi due avevamo più occasioni professionali di vederci e parlarci. Il messaggio era di “togliersi dalla testa” che per avere la comprensione del Giornale fosse sufficiente “contare” su di me o sul condirettore Bettiza, che da liberale era diventato nel frattempo europarlamentare socialista, autore con Ugo Intini di un celebre e significativo saggio “Lib-Lab”, o su Berlusconi. Capii allora che la nostra storia non sarebbe durata ancora a lungo.
Fu in questa situazione, diciamo così, umorale che scoppiò nel mese di marzo del 1983 un incidente. Nel bel mezzo di una polemica esplosa sulla composizione di una nuova giunta esecutiva dell’Eni Montanelli, che era già intervenuto criticando l’antica pratica della lottizzazione, mi chiese di intervenire anch’io con un editoriale. Nel quale condivisi le critiche alla lottizzazione ma posi anche una domanda. Chiesi cioè se fosse solo casuale il no della Dc di De Mita e dell’opposizione comunista esclusivamente alle persone indicate da Craxi, e non servisse invece a contrastare ad ogni costo il segretario del Psi per la sua linea politica, insieme anticomunista e competitiva con lo scudo crociato.
++++
Ricevuto l’editoriale, Montanelli mi chiamò per dirmi di non poterlo pubblicare perché poteva apparire in contrasto col suo precedente intervento. Io ribadii la mia posizione motivandogliela con altri episodi di doppio peso e misura da parte di De Mita su cui lui mi diede ragione. Aggiungendomi però che ormai aveva deciso “con i mei” di non pubblicare l’articolo. Decisione legittima –gli replicai- dalla quale tuttavia doveva attendersi le mie dimissioni, seguite immediatamente con tanto di lettera, perché sorpreso di non essere più considerato dei suoi.
Consapevole di essere stato quanto meno infelice in quel passaggio, Montanelli mandò a Roma Bettiza per convincermi a recedere. Letto però l’articolo, che nessuno prima gli aveva mostrato a Milano pur essendo lui condirettore, Bettiza trasecolò per la posizione assunta da Montanelli senza neppure consultarlo. E alle mie dimissioni fece seguire le sue.
Ditemi voi se questo significa essere stati licenziati o messi alla porta. Cosa, peraltro, che Montanelli non aveva l’abitudine di fare, continuando a tenersi in redazione anche chi non faceva più scrivere, o quasi, senza molti riguardi per chi ne pagava il conto, cioè l’editore.