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Perché Trump riesce a sedurre una parte di americani

Donald Trump

La convention che ha incoronato Trump non poteva che essere una americanata. Così negli Usa da sempre e così per sempre: soap e serial, gioia e lacrime, canti e balli, maschere e costumi, abiti e pettinature, luci e coriandoli. Il bis sarà la convention che nominerà Hillary. Ciò non toglie, però, che ognuna mostri con evidenza almeno due cose serie: il candidato e il programma. Così è stato anche a Cleveland. Dove, fra l’altro, il vincitore era uomo di spettacolo e di tv.

Ma chi è Donald Trump e cosa vuole? Ci aiutano a capirlo da due instant book comparsi in questi giorni. La febbre di Trump. Un fenomeno americano (Marsilio, pp. 160, euro 12) è dovuto a Mattia Ferraresi, corrispondente da New York de “Il Foglio”: un’opera informatissima sulla vita di Donald e della sua famiglia, meno impegnata nel delineare quei mutamenti della società americana che sono alla base del suo successo. Sui quali è centrato il breve saggio di Andrew Spannaus, un americano, studioso di economia e geopolitica, che vive a Roma: Perché vince Trump. La rivolta degli elettori e il futuro dell’America (Mimesis, pp. 102, euro 10).

Un anno di primarie hanno visto scagliarsi contro Trump tutti i poteri forti degli Stati Uniti. Una opposizione che si è servita di tutti i mezzi, soprattutto del disprezzo e della ridicolizzazione, secondo il costume collaudato dovunque degli intellettuali allineati. Che hanno confezionato l’immagine di Trump come qualcosa di mezzo tra il pagliaccio e il fascista: populista, razzista, nazionalista, autoritario, protezionista, qualunquista. Per ricordare qualcosa di simile occorre andare al 1980, quando entrò in politica Reagan, anche lui demonizzato e deriso. Del resto non è un caso che Trump abbia ripreso il suo slogan: “Make America Great Again” costruisci un’America ancora grande. Le cassandre di California profetizzarono il primo Ronald come una catastrofe per il Paese, quando invece si rivelò poi un ottimo presidente.

Non sappiamo se lo sarà davvero, qualora eletto, il secondo Donald. Che non è certo soltanto un tycoon del mattone e uno show man dei mass-media, è una personalità certo anomala, ma deciso e coerente anche nelle sue contraddizioni e incoerenze. Che non nasconde con la pruderie della Clinton, ma enfatizza ed esibisce sfrontatamente con un linguaggio sboccato e sbruffone. Accrescendo il consenso. Le “teste d’uovo” del radicalismo di mestiere lo hanno capito benissimo. Trump mira a capovolgere il modo di fare politica che da decenni prevale, indipendentemente dal fatto che alla Casa Bianca ci sia un repubblicano o un democratico.

Trump ha capito che il vecchio schema «destra-sinistra» non tira più. Egli stesso si definisce «repubblicano ma non conservatore». È consapevole che non si deve resuscitare la vecchia America, ma crearne una nuova, capace di riproporre in forma adeguata ai tempi i valori di sempre: libertà del cittadino, limiti dello Stato, meritocrazia e responsabilità, legge e ordine. Non ha avuto difficoltà a contrapporsi all’attuale presidente Obama, che sta concludendo il suo secondo mandato nell’insuccesso e nello sfacelo, nel declino economico e sociale. In casa la sua superficiale politica multietnica si è tradotta in una perdita di identità e ha stimolato il ritorno di ciò che da Kennedy in poi erano stati sconfitti, conflitti e delitti razziali; all’estero l’impegno e il prestigio degli Usa si sono indeboliti e la sua politica di portare la democrazia nei paesi arabi non solo si è rivelata una favola, ma ha prodotto esattamente il contrario.

Sul piano economico, poi, gli otto anni di Obama, divenuto presidente nell’anno della grande crisi, hanno penalizzato le classi medio-basse (nonostante la riduzione della disoccupazione, stipendi fermi, perdita del potere di acquisto, diminuzione del reddito). Classi che hanno perduto il loro orgoglio e la loro forza, non vivono ma sopravvivono: come ha scritto un politologo ben noto in Italia, Robert Putnam, per la prima volta in America i figli avranno meno fortuna dei padri (Our Kids: the American Dream in Crisis, 2015). Alla fallimentare gestione obamiana, Trump contrappone il proprio programma, nella tradizione liberale del Vecchio Grande Partito (Gop) ma anche con non pochi elementi della democrazia sociale: una ripresa economica che non coincide con la totale deregulation e anzi richiede una dimensione etica; una spesa pubblica che non va tagliata ma sottoposta a rigorosi controlli; Trump guarda con interesse alla Russia e non esita a proporre una revisione della Nato, visto che la sfida, oggi, non è più col comunismo, ma col terrorismo; l’immigrazione clandestina va fermata, così come l’ingresso dei musulmani.

Gli Usa sono profondamente cambiati. Da sempre erano guidati dalla classe politica dei Wasp (bianchi, anglosassoni e protestanti), ma oggi nuove etnie e culture sono emerse. Per un secolo e mezzo era stata impensabile una scelta del tutto legittima in democrazia: un presidente cattolico (Kennedy) o nero (Obama), donna o ebreo o cubano (i candidati Hillary, Sanders, Rubio e Cruz). Oggi più che nel passato un elettorato decisivo è formato appunto da afroamericani, ispanici e donne. Occorre tenerne conto. Qui si situa quella che potremmo chiamare l’utopia di Trump, la sua rivoluzione culturale. Riscoprire il linguaggio, la cultura, la religione nazionale, nel momento in cui gli Usa assistono a ciò che Samuel Huntington ha chiamato «Dead Souls: the Denationalisation of American Elite». Per vincere quell’individualismo narcisista che i cattivi maestri hanno fatto trionfare (distruzione della famiglia, aborto facile, sesso anomalo, droga, atomizzazione sociale e solitudine). Trump non è tenero con la classe intellettuale, la sua regola è: «istruzione sì, ma non troppa» (I love the poorly educated!). Da sempre, del resto la cultura americana è antintellettualistica e pragmatica, come aveva mostrato Richard Hofstadter nel suo classico Anti-Intellectualism in American Life (1963; in Italia da Einaudi).

Le proposte fatte da Trump in campagna elettorale, volutamente esasperate e provocatorie (come il muro tra Usa e Messico), non vanno prese alla lettera. Qualunque presidente eletto deve fare i conti con la realtà e, in tal senso, Trump ha scelto come vice un uomo, il governatore dell’Indiana Mike Pence, il cui carattere moderato e riflessivo sembra il contrario del suo. Non appare dubbio (come mostrano anche Ferraresi e Spannaus) che la vera conservatrice è Hillary Clinton, mentre Donald Trump propone di voltare radicalmente pagina. Tanto che tutto l’establishment ha cercato e cercherà di fargliela pagare.

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)



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