A due settimane dal voto britannico sulla Brexit è forse utile ancorare le riflessioni a dati oggettivi. Dal 2009, cioè dal tonfo dovuto alla grande crisi, al 2015 il Pil del Regno Unito è aumentato del 12,5 per cento. Nello stesso periodo, la zona euro è cresciuta in termini di Pil del 5,1 per cento. Secondo le previsioni del Fondo monetario pre-Brexit, la crescita attesa nel Regno Unito nei prossimi sei anni, cioè fino al 2021, era di un altro 13,4 per cento. Le previsioni di crescita per lo stesso periodo riguardanti la zona euro si limitavano ad un 9,7 per cento. Il tasso di disoccupazione nel Regno Unito, che era il 7,6 per cento nel 2009 (dal 5,7 pre-crisi nel 2008), è tornato rapidamente al 5,4 per cento nel 2015 e le stesse previsioni sopra citate del Fondo monetario ci parlano di un tasso che rimarrà costantemente inferiore fino al 2021. Nella zona euro, il tasso di disoccupazione, che nel 2009 era del 9,6 per cento (dal 7,5 l’anno precedente la crisi), è ancora al 10,9 nel 2015 e le previsioni del Fondo monetario lo proiettano, anzi proiettavano prima della Brexit, ancora all’8,7 nel 2021, cioè superiore al livello pre-crisi di quasi quindici anni prima.
Proprio in considerazione di questi dati, molti osservatori si sono chiesti qual era il motivo di votare per l’uscita dall’Unione europea, poiché in fondo al Regno Unito le cose andavano bene, e ne hanno tratto la conclusione che solo l’ignoranza degli elettori britannici poteva spiegare l’accaduto. Credo, tuttavia, che sia sbagliata la domanda che questi osservatori si sono posti di fronte a questi dati, che fa pensare al comportamento di chi osserva il dito che indica la luna invece di guardare la luna che il dito indica. Il problema è, infatti, chiedersi il perché di questi divari di risultato.
Anche se è certamente complesso spiegare tutti i fattori che hanno generato questa diversa performance dell’economia del Regno Unito rispetto a quella dell’eurozona, credo sia difficile negare che la non appartenenza all’area euro, cioè aver avuto a disposizione una Banca centrale autonoma, e il non aver firmato il Fiscal compact sono due fattori che qualche influenza devono averla avuta. Oltre a ciò il Regno Unito ha “beneficiato” meno di altri paesi, soprattutto rispetto a quelli dell’eurozona, del complesso di regolamentazioni europee che si sono andate accavallando in questi anni. Forse, quindi, il problema è in Europa, e non nel Regno Unito.
Quando poi le varie previsioni che ci vengono offerte a profusione ci parlano di perdite di Pil per il Regno unito conseguente al suo sconsiderato voto (forse un punto percentuale o anche due di crescita in meno nei prossimi anni) va sottolineato che queste ci raccontano di differenze stimate su uno scenario di previsione tendenziale che è quello che abbiamo prima ricordato e che mostra divari positivi ben più ampi rispetto ad un’Europa anemica di crescita, divari in parte riconducibili proprio alla parziale estraneità di questo paese ad un’Unione Europea dominata dalle regole dell’eurozona.
Ora, come non pensare che l’elettore britannico possa aver valutato che un recupero pieno di sovranità avrebbe ampliato i già dimostrati elementi di vantaggio competitivo del Regno Unito, con possibili benefici superiori all’aumento del costo di transazione sugli scambi con l’Europa? Ad esempio, il Regno Unito potrebbe negoziare accordi con Canada, Stati Uniti, Cina ed altri Paesi asiatici in modo molto più rapido, ponendosi ancor più di oggi al centro dei mercati mondiali dei beni, dei servizi e dei capitali, e non solo come porta di accesso all’Europa.
D’altra parte, l’Unione europea solo con un’ulteriore vocazione suicida potrebbe negare, da parte sua, un negoziato rapido e di beneficio reciproco per ovviare ai problemi che si creerebbero in caso contrario. Naturalmente non sappiamo se l’elettore britannico abbia valutato tutto questo e possono accadere cose diverse, neppure possiamo oggi dire che lo scenario ipotizzato sia il più probabile, ma certamente fa parte a pieno titolo del possibile.
Vedremo, ma in base alle informazioni oggi esistenti ci sentiamo di affermare che il voto per la Brexit non risulta così irrazionale come è stato descritto. Il nostro problema è, tuttavia, l’Europa non il Regno unito e il fatto che le regole europee non permettano di venire a capo rapidamente di una crisi bancaria che non è solo italiana e che rischia ancora una volta di diventare sistemica (ed è interessante che nel dopo Brexit siano le banche europee a perdere di valore in borsa molto di più di quelle britanniche) è una riprova del fatto che è nella UE che sta prevalendo l’irrazionalità, non nel Regno Unito. E in ogni caso, rimane come un macigno la vera domanda: perché l’eurozona cresce tanto di meno del Regno Unito?