“Se tutte le persone arrestate negli ultimi giorni fossero state realmente coinvolte nel colpo di stato turco, probabilmente questo avrebbe avuto successo”, commenta sarcasticamente John H Norris del Center for American Progress. E in effetti la lista degli epurati e degli arrestati viene costantemente e tristemente aggiornata: 118 detenuti, tra generali e ammiragli, circa un terzo della catena di comando, seimila militari incarcerati, quasi tremila giudici licenziati, più di 15.000 docenti e quasi novemila funzionari del ministero dell’Interno sospesi, circa ottomila poliziotti licenziati. Cacciati persino 1500 dipendenti delle Finanze, mentre tutti i giudici e i procuratori militari sono indagati e sono state chieste le dimissioni dei 1.577 presidi di facoltà.
L’impressione è che quella lista dei non-allineati alle politiche del presidente Erdogan fosse pronta già da tempo. W. Robert Pearson, ex ambasciatore americano in Turchia (2000-2003), accademico del Middle East Institute di Washington, si tiene alla larga, però, dalle teorie complottiste, secondo cui il golpe tentato venerdì scorso sia stato una messa in scena del “sultano”, un pretesto per imporre una deriva ancora più autoritaria al suo potere, eliminando tutti i contrappesi che lo limitavano: “In questo momento è impossibile sostenere la tesi dell’autogolpe. La voce è nata a causa del repentino fallimento del colpo di stato e delle modalità maldestre con cui è stato messo in atto. Alcune informazioni sembrano confermare che più truppe avrebbe dovuto mettersi in moto nel sud-est, e che altre azioni sono state condotte male da chi ha organizzato il golpe oppure, in alcuni casi, fermate da militari turchi che non erano d’accordo coi golpisti. A mio parere, la bilancia delle prove indica che il tentativo di colpo di stato è stato reale, e non messo in atto dal governo”.
Erdogan ha puntato l’indice contro Fethullah Gülen, il teologo passato da sodale a nemico giurato del presidente, un imam che vive in Pennsylvania da 20 anni ma conserva (o conservava) una notevole influenza all’interno dell’apparato turco, in particolare nella magistratura e nella polizia. Il sultano ha chiesto a gran voce l’estradizione dagli Stati Uniti di Gülen, accusato di essere l’architetto del golpe. Pearson invoca prudenza: “Anche nel caso del ruolo di Gulen, siamo alla pura speculazione, non supportata da alcuna prova. La Turchia dice di avere inoltrato una formale richiesta di estradizione. Ma secondo i termini del trattato sulle estradizioni tra i due Paesi, che la Turchia ha accettato e rispettato per 35 anni, la domanda deve essere accompagnata dalla prova solida e credibile del crimine. Ci sono delle forme che vanno rispettate: la richiesta viene inoltrata al Dipartimento Americano di Giustizia e deve passare attraverso un percorso legale e giudiziario. Vedremo quali prove il governo turco fornirà”.
Per l’ambasciatore, comunque, il tentativo di golpe non è stato così sorprendente, anzi è il culmine di una battaglia esistenziale iniziata anni fa: “Erdogan è devoto a un’idea che enfatizza il diritto della maggioranza rispetto ai concetti di un controllo condiviso del potere da parte delle istituzioni, all’interno di un sistema costituzionale. La visione originaria di Ataturk era differente e mirava a mantenere una democrazia secolare, con pesi e contrappesi, con la rule of law e il rispetto dei diritti individuali. Erdogan, invece, ha approfittato di una serie di vittorie elettorali per cercare di rimuovere gli ostacoli al suo progetto. Nel 2012, con l’appoggio di Gulen, ha attuato, attraverso processi spettacolari, una purga nelle forze armate. Nel 2013 ha represso le manifestazioni pacifiche contro l’autoritarismo del governo. Nel 2014 ha respinto le accuse di corruzione contro i familiari di alcuni membri del governo e ha accusato Gulen di organizzare una struttura statale parallela. Poi ha preso di mira i professori universitari, che volevano far ripartire il processo di pace coi curdi, e i giudici, aumentando i poteri di nomina del governo, a ogni livello. Infine, si è rivolto al sistema educativo, introducendo l’obbligatorietà degli studi di religione e modificando la governance di scuole e università. Quindi è plausibile che dietro il golpe ci siano gli hardliner tra i gulenisti, ma ci sono altre ragioni per pensare che tutto sia nato all’interno di quella parte dell’esercito che intendeva preservare i dettami di Ataturk e la natura secolare della Repubblica”.
“Il fallimento del colpo di Stato”, prosegue l’ambasciatore, “è in un certo senso una vittoria della democrazia, dal momento che i golpe sono interventi alieni ai processi delle moderne democrazie. Inoltre, si può parlare di vittoria della democrazia perché è stato chiaro che il popolo turco, vale a dire l’intero spettro dell’opinione pubblica, non vuole che siano i militari a decidere il loro futuro. Le conseguenze di questo scacco, però, sono sotto gli occhi di tutti: una vasta purga di persone apparentemente messe su una lista compilata dal governo ben prima del colpo di stato. Questa purga chiama in causa lo stato di diritto, ragione per cui la maggior parte dei leader occidentali ha espresso preoccupazione riguardo alla reazione di Erdogan”.
John Kerry è andato al di là della semplice rimostranza, ricordando che l’adesione alla Nato è condizionata al rispetto dei valori democratici. Il ruolo di Ankara all’interno dell’Alleanza Atlantica, di cui è membro dal 1952, è uno dei maggiori interrogativi nati dal fallito golpe: “Uno dei risultati dello scacco di venerdì è, con ogni probabilità, il considerevole indebolimento dell’esercito turco. Prima ci sono stati gli show processuali di massa, dal 2011 al 2013, che alla fine non hanno portato da nessuna parte perché le prove utilizzate erano false. Adesso il golpe abortito. Il morale dell’esercito è basso come non lo è mai stato. La cooperazione tra la Turchia e gli altri membri della Nato, nonché quella bilaterale con gli Stati Uniti, subirà un arretramento, anche se solo temporaneo. Da parte loro, però, gli Stati Uniti cercheranno di ristabilire un coordinamento stretto con l’esercito turco non appena possibile. La Turchia è molto importante, ad esempio, per il dossier siriano, ed è ragionevole pensare che, malgrado tutto, Washington manterrà un canale molto stretto con Ankara su questo tema. È probabile anche che le politiche di Erdogan nei confronti di Assad e dello Stato islamico cambieranno, ma è troppo presto per dire in quale direzione”.