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Siamo più poveri e più malati?

Beatrice Lorenzin Confcooperative

Italiani brava gente ma più poveri e malati. Aumentano nel nostro Paese – dati Istat – le famiglie che vivono in povertà assoluta e la lievissima ripresa della’economia e dell’occupazione non ha nessuna ricaduta sul reddito soprattutto sulle famiglie con minorenni e persone diversamente abili e sulle famiglie di stranieri. Aumentano di ben 400mila persone rispetto al 2014, pari al 7,6% dell’intera popolazione. E ciò che più desta preoccupazione è la fascia di lavoratrici e lavoratori tra i 45 e 54 anni che hanno difficoltà grandi a vivere e curarsi e che rimangono disoccupati per lunghissimo periodo.

L’Italia, non dimentichiamolo, ha firmato in ambito Onu l’impegno ad azzerare la povertà entro il 2030 : è un obiettivo difficilissimo da raggiungere, almeno come quello  sempre sottoscritto però in ambito Ue di aumentare l’occupabilità femminile al 2020 al 70%, quando siamo ancora inchiodati a un deprimente e vergognoso 46,8% e da lì non ci muoviamo. Dieci milioni di donne nel corso della loro vita rinunciano a lavorare o non possono investire nel lavoro per farsi carico degli impegni familiari, il 44% della popolazione femminile italiana. E anche se sono cresciute le donne capofamiglia che con il lavoro loro mantengono la loro famiglia, le donne italiane sono lontanissime dagli standard europei in quanto in Europa il tasso di occupazione il 59,5%.

Povertà materiale e povertà di reti di aiuto, disoccupazione, lavoro poco qualificato, basso titolo di studio sono tutti fattori, spesso correlati l’un l’altro, che minacciano la salute delle persone. Numerosi studi pubblicati negli ultimi 20 anni hanno dimostrato che in tutta Europa i cittadini in condizioni di svantaggio sociale tendono ad ammalarsi di più, a guarire di meno perché risparmiano in cure, a perdere autosufficienza, ad essere meno soddisfatti della propria salute e a morire prima. Mano a mano che si risale lungo la scala sociale questi stessi indicatori di salute migliorano, secondo quello che viene chiamata la legge del gradiente sociale.

E’ del tutto evidente come le disuguaglianze di salute costituiscano anche un fattore di inefficienza, perché rappresentano un freno allo sviluppo sociale ed economico di un Paese, in quanto presuppongono l’uscita precoce dal mercato del lavoro di  persone  altrimenti produttive, un maggior costo a carico del servizio sanitario, delle politiche assistenziali e del welfare, così come una ragione di minore coesione sociale, con un impatto complessivo stimato intorno al 10% del Pil.

Se si potesse intervenire sui meccanismi che generano queste disuguaglianze fino ad eliminarle, si potrebbero guadagnare notevoli miglioramenti di salute, ad esempio riduzioni della mortalità che arrivano fino al 50% tra i giovani adulti maschi, riduzione delle patologie oncologiche sempre più presenti, anche con ripercussioni evidenti sulla presenza sui luoghi di lavoro e sulla spesa per curarsi . In una fase di prolungata di crisi economica – in cui si riduce la capacità di produrre reddito – l’inasprirsi dei sistemi di compartecipazione e il razionamento dei servizi offerti non sono assolutamente neutrali sullo stato di salute della popolazione, e possono generare seri problemi se non sono modulati per la capacità contributiva degli assistiti.

La presenza di forti diseguaglianze economiche si riverbera in modo pesante sulle diseguaglianze in termini di salute, causando l’aumento delle patologie esistenti e, soprattutto, la comparsa di “nuove” malattie. Si  assiste  a una riduzione della domanda di prestazioni sanitarie e per molti degli indicatori sugli stili di vita (alcol, fumo, droghe, depressione) sono aumentate le differenze nei comportamenti fra i diversi strati sociali della popolazione.

Il Rapporto Inps ci evidenzia che sono ben il 10%, dunque un milione e 13mila, le donne e gli uomini in povertà assoluta che non hanno ancora l’età per entrare nel mercato del lavoro o che ne sono esclusi. E’ dunque legittimo esprimere considerazioni: i tagli alla sanità hanno avuto effetti sostanziali sulla componente della spesa dedicata ai servizi al paziente (minore spesa ospedaliera, specialistica, diagnostica, ecc.), ma scarsi effetti sulla spesa accessoria di funzionamento (servizi non sanitari di varia natura, consulenze, affitti, ecc.) che invece ha continuato a crescere. In tal modo, è evidente che si  è prodotta una riduzione nella possibilità di garantire i LEA che potrebbe aver avuto effetti importanti sulla salute dei cittadini.

Rimane quindi da capire se i tagli imposti al sistema sanitario e a quello sociale più in generale possano essere visti come un guadagno in termini di efficienza del sistema senza incidere sullo stato di salute della popolazione o, invece, abbiano provocato danni i cui effetti cominciano a vedersi ora, ma saranno molto più evidenti negli anni a venire.

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