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La riforma della Costituzione non cambia la forma di Stato

Il 5 settembre 1946 la Commissione incaricata di redigere quella parte della Costituzione, con ventidue voti a favore e sei astensioni – nessuna voce contraria – approvava la mozione Perassi. Questa proponeva l’“adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi tuttavia con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. L’istanza largamente condivisa, ma poi dimenticata, veniva spiegata sottolineando che la nascita del fascismo era riconducibile alle debolezze del parlamentarismo del periodo pre-fascista. Quindi, il tema della stabilizzazione dei governi è stato affrontato nel 1947, per poi dimenticarlo.

La riforma costituzionale non modifica il regime parlamentare. Il Governo deve avere la fiducia della sola Camera dei Deputati e non quella del Senato. Ma la riforma non trasforma la legittimazione dell’esecutivo in una legittimazione direttamente popolare. In altre parole, sarà sempre il Parlamento che dovrà dare la fiducia, non il voto popolare.

È bene ricordare che nessun improprio collegamento può istituirsi tra riforma costituzionale e nuova legge elettorale. Quest’ultima è stata approvata con legge ordinaria. È e sarà sempre modificabile da un’altra legge. Deve ancora essere sottoposta al vaglio della Corte costituzionale. Chi teme il suo effetto maggioritario dovrebbe tener presente che assicura un margine di soli 24 deputati su 630, di gran lunga inferiore a quello di maggioranze in passato ben presto finite in minoranza.

Ma torniamo alla riforma costituzionale e alla preoccupazione sui suoi effetti. Se noi oggi ci chiediamo chi sono i grandi produttori di decisioni pubbliche, quelli che noi giuristi chiamiamo i produttori di norme, la risposta è che in Italia possono produrre norme le Regioni, lo Stato e l’Unione Europea. Nel 1948 l’unico produttore di norme era lo Stato. Ed allora occorre domandarsi se quella funzione di garanzia e di contrappeso che deriva dal pluralismo dei legislatori, che serve anche a tenere a freno la “tirannide delle maggioranze”, tradizionalmente affidata al bicameralismo, non sia oggi svolta dalle Regioni e dall’ Unione Europea a cui lo Stato deve, in un modo o nell’altro, rispondere: infatti, le Regioni possono impugnare le leggi statali davanti alla Corte Costituzionale, mettendo di fatto sotto accusa lo Stato e, quando lo Stato non rispetta le norme europee, l’Unione può mettere sotto accusa governo e Parlamento nazionali. Questi fattori di condizionamento a livello nazionale ed europeo creano contrappesi più efficaci della funzione di ridondanza del bicameralismo. Più efficaci, perché il bicameralismo cosiddetto paritario spesso riproduceva la stessa maggioranza nei due rami del Parlamento, mentre in sede regionale e in sede europea, invece, si formano maggioranze diverse.

Quarta parte dello studio “Cinque domande sulla riforma della Costituzione” (qui si può leggere la prima, qui la seconda, qui la terza) a cura del giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese e pubblicato da Assonime (Associazione fra le Società Italiane per Azioni) (qui il pdf completo)


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