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Vi racconto il surreale dibattito sulla data del referendum costituzionale

SERGIO MATTARELLA

Non per spalleggiare i grillini, peraltro divisi anche su questo, ma ho fatto qualche verifica sul carattere “surreale”, come l‘ha definito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del dibattito e delle previsioni sulla data del referendum costituzionale. E mi sono convinto che surreale non sia tanto il dibattito quanto la situazione consentita da leggi a dir poco bislacche. Che qualcuno dovrebbe decidersi a cambiare, magari col contributo persuasivo proprio di Mattarella, per restituire una misura accettabile di serietà anche a questo problema del cosiddetto referendum confermativo, per il quale basta che a chiederlo sia un quinto di una Camera quando una modifica alla Costituzione viene approvata in Parlamento con una maggioranza inferiore ai due terzi dei voti.

Una volta che il capo dello Stato ha invitato ad attenersi alle procedure e ai termini della Corte di Cassazione, che ha tempo sino al 15 agosto per pronunciarsi e passare la parola al governo, che ne ha altri 60 per proporre al capo dello Stato e indicare per il referendum una data fra i 50 e i 70 giorni successivi, mi sono chiesto perché mai il presidente del Consiglio Matteo Renzi si fosse sbilanciato nei mesi scorsi, più volte anche in televisione, a parlare della domenica 2 ottobre come di quella possibile per chiudere definitivamente, con un sì o con un no, la partita della sua riforma costituzionale.

Il 2 ottobre sarebbe una data giuridicamente impossibile partendo dal 15 agosto. Che, essendo peraltro un giorno di festa, dovrebbe diventare 16 agosto. E mi sono detto: il solito Renzi, pasticcione e improvvisatore. Ma poi mi sono chiesto se Renzi non sia più semplicemente colpevole di buon senso: cosa che in questo curioso paese chiamato Italia sembra diventata appunto una colpa. O addirittura un reato. Il buon senso, in questo caso, di pensare che, cadendo proprio in un giorno di festa, gli illustrissimi magistrati della Corte di Cassazione volessero e potessero anticipare il termine della loro pronuncia di almeno 24 o 48 ore. In quel caso, anticipando la decisione, il governo avrebbe potuto in effetti indicare e proporre al Quirinale per il referendum la prima domenica di ottobre. Ciò è invece proibito dall’abitudine nazionale di prendersela, diciamo così, con comodo.

Poi sono subentrate anche in Renzi, smaltito l’entusiasmo della prima ora e verificati i problemi creati imprudentemente proprio dalla sua baldanza, compreso l’annuncio delle dimissioni e della crisi di governo in caso di sconfitta, considerazioni di opportunità politica favorevoli ad uno spostamento in avanti della data del referendum, sino a domenica 6 novembre. Anche a costo di far saltare la mosca al naso del mio amico Aldo Cazzullo, convintamente allarmato sul Corriere della Sera dalla vicinanza con le elezioni presidenziali americane del giorno dopo. A ciascuno, per carità, le sue convinzioni e i suoi timori.

Poi ancora sono subentrate altre considerazioni, anch’esse liquidate da Mattarella come surreali evocando addirittura la caccia digitale ai Pokemon, ma che a me non appaiono tali: in particolare, la volontà o preoccupazione di lasciare approvare prima dalle Camere l’inderogabile legge finanziaria, o di stabilità, o come altro si chiama adesso, per metterla al sicuro di fronte al rischio di una crisi di governo per un’eventuale vittoria del no referendario alla riforma costituzionale.

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Facciamo adesso un passo indietro. E ripartiamo dal benedetto 15, cioè 16 agosto, come termine di scadenza per chiudere la pratica del referendum alla Corte di Cassazione e passare la parola al governo.

Calendario alla mano, contando il minimo e il massimo dei giorni – fra i 50 e i 70 – a disposizione del governo  come data del referendum da proporre alla firma del capo dello Stato, e considerando la domenica come la giornata delle urne, arriviamo ad una forbice che va dal 9 ottobre al 25 dicembre, cioè al 18. Considero infatti scontato il pur colpevole buon senso di non far votare gli italiani sulla riforma costituzionale il giorno addirittura di Natale, quest’anno appunto di domenica.

Ora, mi chiedo e vi chiedo che senso abbia consentire una forbice così larga – fra il 9 ottobre e il 18 dicembre – per una scadenza che è diventata un crocevia politico di prim’ordine, fonte inevitabile di instabilità politica, per quanti sforza vorrà o potrà fare il presidente del Consiglio di non ridurre l’impegno del suo governo, alle prese con enormi problemi interni e, se permettete, internazionali.

Alla scadenza referendaria è legato, fra l’altro, il cosiddetto tagliando del governo annunciato, o reclamato, dal diviso e inquieto partito del ministro dell’Interno Angelino Alfano. Diviso, in particolare, fra quanti vorrebbero tornare in quello che fu il centrodestra, specie se nel frattempo dovesse svilupparsi positivamente il lavoro appena affidato da Silvio Berlusconi a Stefano Parisi, pagando allo stesso Berlusconi e ai vari Renato Brunetta di Forza Italia il prezzo dell’uscita dal governo e dalla maggioranza, e quanti vorrebbero invece coltivare un’alleanza anche elettorale col Pd di Renzi. Specie se cambiasse la legge che oggi assegna il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione più votata.

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Qualche giorno fa è comparsa sull’Unità una vignetta particolarmente sagace del solito Staino in cui il papà alla figlia che si chiede quanto potrà ancora resistere Renzi ai colpi che gli vengono da destra e da sinistra risponde chiedendo a sua volta: e dove metti quelli che gli vengono dal centro?

E’ una ragione in più, credo, per non tenere tanto a mollo il governo in un contesto interno e internazionale denso e pericoloso come questo.

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