Per quanto arruolato d’ufficio dai soliti retroscenisti fra i congiurati per un regolamento di conti nel Pd dopo i rovesci subiti nelle elezioni amministrative di giugno, peraltro surclassate da vecchie e nuove emergenze internazionali che investono anche l’Italia, Walter Veltroni ha lanciato un appello in soccorso di Matteo Renzi alla direzione già programmata nella scorsa settimana e rinviata per gli impegni europei imposti al presidente del Consiglio dalla Brexit.
Anche all’ex e primo segretario del partito nato nove anni fa dalla fusione fra i resti più consistenti delle nomenclature comuniste e democristiane, nella speranza che potessero seguirle anche gli elettori, “le furbizie e gli intrighi” in cui sono immerse correnti e correntine del Nazareno hanno ricordato lo storico naufragio del Titanic. Dove l’orchestra continuava a suonare durante l’affondamento davanti ai “sagaci sistematori di sedie a sdraio”. Sulle quali i critici e gli avversari di Renzi pensano di godersi comodamente il sole di questa estate, non rendendosi conto, secondo un’altra immagine recentemente evocata dallo stesso Veltroni, di essersi avventurati ad affrontare “l’inverno in costume da bagno”.
Veltroni si è augurato sull’Unità che il dibattito in direzione sia oggi “all’altezza di questi tempi pericolosi”, convinto che “indebolire uno dei pochi governi riformisti d’Europa in questo momento sia un errore gravissimo”. Altro che minacciare, come hanno già fatto le minoranze nei loro esercizi spirituali della vigilia, di non votare la fiducia sui provvedimenti quando non ne condividono i contenuti, cioè mai. Se poi non sono i contenuti a soddisfarle, basta a irritarle il fatto che votino a favore Denis Verdini e i suoi amici.
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Il tema più scottante del dibattito interno al Pd è diventato ormai non tanto la richiesta “lunare”, come l’ha definita Renzi, di separare le cariche di segretario del partito e di presidente del Consiglio, quanto la modifica della nuova legge elettorale della Camera appena entrata in vigore e già finita sotto esame alla Corte Costituzionale. Dalla quale ogni tanto si ha l’impressione, magari a torto, che lo stesso Renzi voglia sorprese per avere una buona ragione di cambiare idea senza perdere la faccia, avendo più volte detto, e fatto dire dalla ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, di non avere intenzione di cambiare, “manco morto”, un provvedimento che non si è avuto il tempo neppure di sperimentare.
Se fossero i giudici del Palazzo della Consulta ad eccepire, per esempio, sui capilista bloccati o sul ballottaggio non garantito da alcuna soglia di partecipazione alle urne, per evitare che l’astensionismo procuri col premio della maggioranza il 55 per cento dei seggi ad una lista o partito forte solo del 20 per cento o poco più dell’elettorato reale, il governo non potrebbe che prenderne atto e darsi da fare.
È tuttavia difficile che la Corte Costituzionale tolga dal fuoco delle polemiche anche la castagna, decisiva per gli avversari ma pure per gli alleati di governo di Renzi, del premio di maggioranza alla lista più votata, e non alla coalizione, come vorrebbero insieme le minoranze del Pd, i centristi di Angelino Alfano, i verdiniani, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e la cosiddetta sinistra radicale. Solo i grillini, che si vantano di correre sempre e ovunque da soli, non hanno interesse a cambiare questo aspetto della legge, specie ora che sentono di avere il vento nelle vele dopo la conquista del Campidoglio e di Torino.
Chi l’avrebbe mai detto che per convincere Renzi a passare dal premio di lista al premio di coalizione gli sarebbe stata indicata come esempio la Dc da un uomo come Eugenio Scalfari, che quando era in auge lo scudo crociato non si spellava certo le mani per applaudirlo o scriverne bene? Eppure è stato proprio lui nel consueto appuntamento domenicale con i lettori della sua Repubblica a raccomandare al segretario del Pd e presidente del Consiglio di fare come Alcide De Gasperi. Che nel 1948, pur avendo la Dc avuto dagli elettori i voti per governare da sola, preferì farlo in compagnia, alleandosi con i partiti laici. Averne però adesso di partiti e leader come quelli con cui De Gasperi volle e riuscì ad accordarsi per ricostruire l’Italia e ancorarla all’Occidente.
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Già un’altra volta è capitato di recente a Scalfari di rimpiangere i bei tempi andati della Dc. Lo ha fatto contestando proprio la nuova legge elettorale della Camera e il premio di maggioranza destinato al partito o lista che abbia conseguito almeno il 40 per cento dei voti, o al partito o lista più votata nell’eventuale, successivo ballottaggio. Tutta roba, secondo Scalfari, troppo rischiosa per la democrazia, dovendosi il premio di maggioranza adottare solo per consolidare la vittoria conseguita da un partito o da una coalizione votata dal 50 per cento dei voti più uno.
Ciò fu esattamente quello che stabilì nel 1953 una legge elettorale voluta da De Gasperi, approvata in Parlamento fra tumulti e liquidata dai comunisti e da intellettuali come Scalfari con la formula tanto sprezzante quanto ingiusta di “legge truffa”. Il clima che le opposizioni riuscirono a creare in quell’occasione fu tale che, non essendo scattata la nuova legge per alcune migliaia di voti, e avendogli il ministro dell’Interno Mario Scelba proposto controlli e verifiche di eventuali brogli compiuti dagli scrutatori di sinistra nei seggi elettorali, De Gasperi gli ingiunse di rinunciarvi. Pur di evitare prevedibili moti di piazza, egli preferì che a prevalere fosse la truffa degli altri. Egli morì senza fare in tempo, poveretto, a godersi il ravvedimento di quanti lo avevano così pretestuosamente contrastato.