Anche a costo di sembrarvi cinico e troppo indulgente, se non addirittura solidale con i militari turchi che hanno inutilmente tentato di deporre il presidente Recep Tayyp Erdogan, i morti e gli arresti di Ankara mi fanno più paura di quelli di Nizza.
A Nizza è già ripresa la vita, spero non in attesa del prossimo errore degli apparati di sicurezza, senza cui non sarebbe mai stato possibile ad un pazzo -arruolato forse tardivamente e opportunisticamente, ormai morto, da un Califfato pronto a rivendicare tutto pur di apparire ancora forte, nonostante i rovesci militari che sta subendo- l’avventura di impadronirsi di un Tir per seminare la morte in un’isola pedonale affollata di gente in festa.
Ad Ankara la democrazia che Erdogan si vanta di avere salvato sarà ancora più particolare ed anomala di prima, con tutti quegli ufficiali e soldati già uccisi e con quelli destinati a seguirli nelle fosse, se saranno ancora considerati degni di una sepoltura. Non parliamo poi delle migliaia, non centinaia, di magistrati arrestati e dell’effetto che il loro arresto avrà su quelli che sono stati lasciati ai propri posti per amministrare la giustizia come si aspetta il governo. Cosa che in Italia avrebbe già indotto Piercamillo Davigo al suicidio.
Winston Churchill soleva dire che “la democrazia è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre che si sono sperimentate finora”. Dubito ch’egli ripeterebbe le stesse parole oggi, parlando della democrazia di Erdogan. Che partecipa, per esempio, tanto convintamente alla Nato da avere subito puntato il dito sugli americani, cioè i suoi principali alleati, come responsabili o complici del complotto militare cui è sfuggito.
Il presidente turco è tanto convintamente deciso a partecipare all’Unione Europea da pretenderne e ottenerne i soldi per fermare il flusso migratorio verso l’Occidente e lasciare poi continuarne il traffico per mare, o usare le sue propaggini in Libia per spostare gli arrivi dalla Grecia, e dai Balcani, all’Italia.
Erdogan è tanto convintamente impegnato, ed ancora più lo sarà, a partecipare alla lotta armata dichiarata e condotta dagli alleati occidentali al Califfato da considerare più pericolosi i curdi dei macellai di Raqqa. E da ordinare o permettere l’abbattimento di un aereo russo che aveva avuto il torto non tanto di essere sconfinato per qualche minuto in territorio turco – circostanza peraltro negata dai russi – quanto di avere appena finito di bombardare pericolose postazioni dell’Isis in Siria.
Quali prospettive potrà avere, dopo il fallito golpe attribuito a iniziative o coperture americane, la partecipazione della Turchia di un rafforzato Erdogan alla lotta contro il Califfato, è purtroppo facile immaginare. E le reazioni compiaciute dei governi occidentali all’ordine appena ristabilito ad Ankara, dettate più dal realismo o dal cinismo diplomatico che altro, non migliorano certamente le cose. Che rimangono turche, a tutti gli effetti.
Dalla democrazia come peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre che si sono sperimentate finora, secondo le celebri parole di Churchill, si può forse passare a dire che c’è una sola cosa peggiore di un colpo di Stato in un paese dove la democrazia ha l’abitudine di chiudere i giornali di opposizione e di arrestare o uccidere in piazza i dissidenti che osano dimostrare. La cosa peggiore è un colpo di Stato fallito. E ciò per i pretesti che può offrire al potere che è riuscito a sopravvivervi. Un potere che in passato in quel Paese ha potuto essere laico, cioè non asservito a certo fanatismo religioso, proprio grazie ai militari, come dimostra la storia del fondatore della Turchia laica Mustafa Kemal Ataturk lodevolmente ricordata oggi su Repubblica da Eugenio Scalfari.
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Barpapà, come viene affettuosamente chiamato ancora in redazione il fondatore della Repubblica di carta, ha trovato il modo di occuparsi nel suo abituale appuntamento con i lettori anche di qualche problemino, diciamo così, italiano. In particolare, del referendum d’autunno, o di chissà quale altra stagione imposta dalle circostanze, sulla riforma costituzionale targata Renzi e Boschi.
Se n’è occupato, forse prenotando qualche sfottò del sempre vigile ed esigente Marco Travaglio, per scrivere che la confusione drammatica che c’è nel mondo potrebbe aiutare il presidente del Consiglio a vincere anche la sua partita referendaria, visto che un’altra dose di confusione potrebbe essere procurata in casa nostra da una eventuale vittoria del no e dalla conseguente crisi di governo.
Potrò sbagliare, per carità, ma ho avuto la sensazione che questo timore stia facendo breccia anche in Scalfari, e forse pure nell’amico editore Carlo De Benedetti, tentati sino a qualche giorno fa proprio dal no nel caso in cui il referendum non fosse preceduto da un serio impegno a modificare la nuova leggere elettorale della Camera nota come Italicum. Un impegno che Barpapà è tornato a chiedere al presidente del Consiglio con un certo scetticismo, ma senza più i toni ultimativi usati, per esempio, nel suo recente e pur cortese confronto con lo stesso Renzi davanti al pubblico accorso all’annuale festa di Repubblica, entrata ormai nelle scadenze politiche come una volta le feste dell’Unità, ora in crisi di affluenza e d’identità. Fa pure rima.