Da un po’ di mesi il concetto è chiaro a tutti: i crediti deteriorati (non performing loan o npl), quei prestiti cioè che le banche fanno fatica a riottenere, sono il vero tallone d’Achille degli istituti di credito italiani. Lo stesso piano di salvataggio di Monte dei Paschi di Siena, in costanza degli stress test europei (che il gruppo senese non ha superato), si è reso necessario proprio per il buco creato a bilancio tra la valutazione data da Rocca Salimbeni e il prezzo del mercato.
I PARAMETRI DEL MONTE DEI PASCHI
Il progetto per mettere in sicurezza Mps si basa su due passaggi fondamentali. Il primo prevede la vendita di un maxi pacchetto di sofferenze lorde da 27,7 miliardi di euro al prezzo di 9,2 miliardi, ed è a sua volta suddiviso in una tranche meno rischiosa da circa 6 miliardi che dovrebbe godere di garanzia pubblica Gacs ed essere collocata presso investitori istituzionali, a cui si aggiungeranno 1,5 miliardi di tranche cosiddetta mezzanina che dovrebbe essere rilevata dal fondo Atlante 2, e poi c’è la parte più rischiosa, cosiddetta junior, che sarà attribuita pro quota agli azionisti della banca senese. Il secondo passaggio del piano è il vero e proprio aumento di capitale, da 5 miliardi, che si renderà necessario anche per il “buco” creato dalla cessione del pacchetto di sofferenze di cui sopra. L’istituto senese, infatti, vende al 33% del valore lordo crediti che in bilancio sono valutati al 36% abbondante. Non solo: parte della ricapitalizzazione, ovviamente ammesso e non concesso che vada in porto (se ne parlerà da ottobre in poi), servirà per aumentare le coperture sugli incagli, che ora si chiamano “inadempienze improbabili”, in questo modo svalutandoli. In particolare, dopo l’aumento, la copertura delle inadempienze improbabili, che nella scala del rischio vengono subito dopo le sofferenze (i prestiti praticamente dati per persi), salirà al 40% nel bilancio di Mps, mentre nelle altre banche italiane è in media al 20 per cento. Proprio questo “buco”, insieme con quello legato all’acquisto delle sofferenze al 33%, negli ultimi tempi ha messo sotto pressione i titoli delle banche italiane: si sospetta, in sintesi, che per colmarlo siano necessari altri aumenti di capitale, oltre a quello del Monte.
IL CASO DI CARIGE
L’attenzione, per esempio, corre da Siena a Genova, dove Carige, che non era inclusa negli stress test principali ma è sottoposta a quelli per i gruppi di dimensioni minori (non resi pubblici), da tempo attraversa una situazione difficile. L’istituto guidato dall’amministratore delegato Guido Bastianini, che di recente ha preso il posto di Piero Montani (entrato in collisione con la famiglia Malacalza, prima azionista), nei giorni scorsi ha alzato il velo sui numeri del primo semestre del 2016, che si è chiuso con una perdita di pertinenza della capogruppo pari a 206,1 milioni, rispetto alle perdite di 41 milioni realizzate nello stesso periodo del 2015. Veniamo alla voce crediti deteriorati. Una nota dell’istituto genovese spiega che le rettifiche di valore, dunque le svalutazioni, sono state pari a 344,5 milioni, più che raddoppiate dai 133,4 milioni del primo semestre del 2015, “anche a seguito di una ampia verifica condotta dalla Bce”.
L’INTERVENTO DELLA BCE
Insomma, l’autorità europea di vigilanza, con cui negli ultimi tempi Carige ha avuto qualche attrito, ha domandato di aumentare le coperture sui prestiti dubbi, che sono così cresciute dal 42,4% di al 45,6 per cento. Questa però è la percentuale complessiva sugli npl, in totale pari a 7 miliardi lordi. Nel dettaglio, le sofferenze si attestano a 3,7 miliardi lordi, con un tasso di copertura al 60,7%, in leggerissima crescita sul 60,4% di fine dicembre. Ciò implica una valutazione netta a bilancio di quasi il 40%, dunque maggiore rispetto al 33% cui Mps ha venduto (meglio: sta vendendo) il suo pacchetto di sofferenze. E’ sempre più evidente, quindi, perché nei mesi scorsi Carige ha respinto al mittente l’offerta del fondo Apollo, che puntava a pagare le sofferenze sotto il 20% del loro valore lordo: nel caso in cui lo avesse fatto, sui conti si sarebbe aperta una voragine, corrispondente alla forbice tra il quasi 20% offerto dai compratori e il quasi 40% a bilancio, con la conseguente probabile necessità di un aumento di capitale. Poi ci sono le inadempienze probabili, che ammontano a 3,1 miliardi e la cui copertura è salita nettamente per l’intervento della Bce, dal 24,2% di dicembre al 30,1% attuale. Anche in questo caso, però, Carige è lontana, di una decina circa di punti percentuali, dal tasso di copertura del 40% cui Mps punta di arrivare dopo l’aumento di capitale. Numeri, quelli della banca ligure, che fanno pensare a qualche analista che sia necessario l’ennesimo aumento di capitale. In una recente intervista al Secolo XIX, il presidente Giuseppe Tesauro (nella foto) ha dichiarato in proposito: “Vedremo se sarà necessario, se lo sarà l’assemblea degli azionisti lo deciderà”.
I NUMERI DI UBI
Anche Ubi Banca e Banco Popolare, che pure hanno appena superato gli stress test per gli istituti di maggiori dimensioni, devono fare i conti con il fardello dei crediti deteriorati. Diamo uno sguardo ai loro numeri, appena resi noti. Nel primo semestre, Ubi ha contabilizzato rettifiche di valore nette per deterioramento di crediti per un ammontare di oltre 1,2 miliardi (389,1 nello stesso periodo del 2015). A fine giugno, lo stock di crediti deteriorati netti si attestava a 8,5 miliardi (9,7 a dicembre 2015), con sofferenze a 3,85 miliardi. Su queste ultime, includendo i crediti stralciati, la copertura è del 58,25% (rispetto al 52,25% del dicembre 2015). In questo caso, quindi, si supera il 40% di valutazione netta a bilancio, allontanandosi ulteriormente dal 33% di Mps. Ancora più larga la forbice sulle inadempienze probabili, coperte dall’istituto guidato da Victor Massiah per appena il 23,75% (dal 16,71% del dicembre 2015), contro il 40% del gruppo senese.
L’ASTIO DEL BANCO POPOLARE
Il comunicato con cui il Banco Popolare guidato da Pier Francesco Saviotti ha annunciato i numeri del primo semestre tradisce un certo astio nei confronti della Bce, per l’attenzione e le pressanti richieste sui prestiti dubbi: “A causa esclusivamente dell’incremento del costo del credito, motivato dalle decisioni finalizzate all’innalzamento del livello medio di copertura dei crediti deteriorati richiesto dalla Bce in prospettiva dell’aggregazione con Bpm, il semestre si chiude con un risultato economico netto negativo per 380 milioni”. Quanto al dettaglio dei crediti deteriorati, le sofferenze nette ammontano a 6,1 miliardi e le inadempienze probabili a 7,2 miliardi. In modo simile a quel che accade per Ubi, le differenze con il caso Mps sono nette: la copertura sulle sofferenze è del 59,3% (56,3% a dicembre contro il 67% del piano Mps) e quella sugli ex incagli è al 24,7% (25,4% a dicembre contro il 40% del piano senese).
INTESA SANPAOLO E LE PAROLE DI MESSINA
Ma quanto ha senso confrontare la situazione delle banche italiane con quella di Mps, le cui difficoltà sono sotto gli occhi di tutti? Per Carlo Messina, numero uno di Intesa Sanpaolo, che copre le sofferenze al 60,7% (contro il 67% di Mps dopo l’implementazione del piano) e che è l’istituto italiano che meglio ha superato gli stress test, non ne ha. “E’ chiaro che non è possibile paragonare una banca che deve sopravvivere con un vero campione del mercato. Non è così corretto da parte di un analista esercitarsi a usare la stessa copertura dei crediti di Mps per altri player del mercato”, ha detto Messina. L’ad di Intesa è sicuramente di parte, ma il nodo della valutazione nei bilanci dei crediti deteriorati di certo merita una riflessione accurata, che deve prescindere dai prezzi e dalle mode del momento: ne va di mezzo la sopravvivenza dell’intero sistema.