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Come si muove Putin tra Egitto, Turchia e Israele

“Ricordo che il presidente russo Vladimir Putin mi ha detto di aver invitato il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen e il premier israeliano Benjamin Netanyahu per incontrarsi a Mosca e tenere colloqui diretti”. L’intreccio internazionale passa così, attraverso un “ricordo” dell’egiziano Abdel Fattah al Sisi rivelato durante un incontro con i direttori dei giornali egiziani domenica.

LA RUSSIA VUOLE INTESTARSI UN RUOLO

Dal Cairo arriva un’ulteriore indicazione sul rinnovato impegno russo in Medio Oriente e sull’attivismo di Mosca che manda messaggi attraverso partner strategici, l’Egitto, paese a lungo conteso tra blocco occidentale e sovietico ai tempi della Guerra Fredda, e ora amico sia degli europei, su tutti i francesi, che dei russi. La pace tra israeliani e palestinesi potrebbe ripartire (il condizionale è d’obbligo) da un colloquio, non ancora calendarizzato (i tempi non sono chiari: Netanyahu sarà a New York per parlare all’annuale conferenza delle Nazioni Unite il 22 settembre e una fonte governativa israeliana ha detto a Israel Radio che non c’è bisogno di “condizioni preliminari” perché il premier potrebbe incontrare Mazen in qualsiasi momento). Il primo ministro israeliano ha interesse a inserire nella partita un nuovo giocatore, come la Russia, perché sa che attualmente la Casa Bianca è nella fase “lame-duck“, l’anatra zoppa con cui gli americani definiscono il ruolo a mani legate di un presidente a fine mandato: metterci in mezzo Mosca non porterà a risultati definitivi, ma permetterà a Gerusalemme di sopravvivere da adesso fino a gennaio prossimo, quando il nuovo inquilino di Pennsylvania Ave avrà preso pieni poteri. Putin vuole che un meeting si tenga in Russia, nella capitale o nella sua capitale diplomatica, San Pietroburgo, da cui si dipanano le trame della politica internazionale putiniana, non tanto perché il capo del Cremlino cerca una via per intestarsi un ambizioso successo, ma perché Putin vuole ricavarsi un ruolo. Più che altro l’incontro sarà usato come passaggio diplomatico, e dunque mediatico, e dunque propagandistico, per apparire un honest broker agli occhi della Comunità internazionale. Due settimane fa per la città fondata da Pietro il Grande sul delta del Neva è passato il presidente turco Recep Tayyp Erdogan: lì si sono sanciti nuovi accordi commerciali tra Mosca e Ankara, lì probabilmente si è dato vita a una nuova attività strategica che mira a deviare l’angolo dell’asse turco verso oriente, con grande preoccupazione della Nato (di cui la Turchia è membro). Il vertice ha portato Putin a essere il primo capo di stato ad aver incontrato i vertici politici di Ankara dopo il fallito golpe del 15 luglio.

TURCHI E ISRAELIANI FANNO LA PACE, SULLO SFONDO LA PALESTINA

Sabato 20 agosto i parlamentari turchi hanno approvato il documento di normalizzazione delle relazioni con Israele: il voto era saltato a causa del golpe del 15 luglio e della successiva stabilizzazione (forzata a furia di purghe e repressioni). Turchia e Israele erano in rotta dei rapporti diplomatici a causa della vicenda della “Mavi Marmara”, imbarcazione della Freedom Flotillia, che il 31 maggio del 2010 fu attaccata nelle acque internazionali del Mediterraneo da un blitz dei commandos marini israeliani, gli Shayetet 13, perché stava per violare il blocco navale imposto su Gaza (a voler cercare una linea c’è anche questa volta). Nove attivisti a bordo della nave che aveva fatto resistenza all’invito a rientrare al porto di Ashdod per un’ispezione (cosa che invece fecero altre cinque navi della flottiglia marittima che si muoveva verso Gaza), rimasero uccisi praticamente mentre cercavano di trasportare aiuti umanitari nella Striscia, che gli israeliani avevano isolato per ragioni di sicurezza. Un forfait da 20 milioni di dollari sarà il risarcimento che Israele pagherà alla Turchia per l’incidente di sei anni fa: l’accordo chiuso il 27 giugno prevede anche che Israele permetterà alla Turchia di costruire un ospedale a Gaza, una centrale elettrica e un impianto di distillazione per rendere l’acqua potabile. Controparte: Ankara farà pressioni su Hamas per cercare di far interrompere le operazioni militari contro lo stato ebraico, ossia i turchi allenteranno il filo che li lega al gruppo estremista palestinese. L’organizzazione che governa la Striscia di Gaza ha preso positivamente le volontà turche (o forse le ha accolte giocoforza): “Hamas ritiene che sotto l’accordo turco-israeliano, la Turchia ha raggiunto il miglior risultato possibile per alleviare il blocco di Gaza, che è stata colpita da crisi economiche” ha detto ad Al Monitor Ahmed Youssef, ex consigliere politico di Ismail Haniyeh, vice capo dell’ufficio politico di Hamas; d’altronde tre giorni prima il capo dell’ufficio politico, Khaled Meshal, che vive rifugiato in Qatar, era volato ad Ankara dove il presidente Erdogan lo aveva ragguagliato sui termini che avrebbe negoziato con Gerusalemme, anche se come spiegato con compiacimento sempre al sito americano specializzato in Medio Oriente da Abdullah Abdullah, un membro del Consiglio rivoluzionario di Fatah e capo del comitato politico del Consiglio legislativo palestinese, la Turchia ha negoziato l’accordo con Israele per interessi propri e lo avrebbe fatto con o senza il bene placito di Hamas. Sisi, nel suo annuncio sul prossimo meeting russo, ha auspicato la riconciliazione tra i due grandi gruppi di potere palestinesi, Hamas e Fatah: un’intesa che sarebbe propedeutica alla pace con Israele.

IL RUOLO EGIZIANO

Turchia e Egitto, seppur non troppo allineati, sono paesi che hanno sostenuto la causa palestinese (la Turchia ospita anche diversi uomini di Hamas e Fatah fuggiti dalla Palestina, i primi sono anche attivi e usano il territorio turco per incontri con finanziatori stranieri, come dimostrato da un’inchiesta del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth). Mosca è tornata ad essere partner di entrambi, mentre contemporaneamente ha buoni rapporti di interesse con Israele. Per esempio, quando è iniziato il coinvolgimento diretto russo nel conflitto siriano, Netanyahu ha subito chiesto un incontro urgente con Putin per garantirsi la possibilità di continuare la propria agenda siriana (essenzialmente: bombardare eventuali passaggi di armi oltre la frontiera libanese diretti agli Hezbollah) senza interferenze e spiacevoli incidenti; la Russia ha concesso. L’Egitto dei generali – definizione che semplifica il governo militarista ex-golpista imposta da Sisi al Cairo – è diventato negli ultimi tre anni un alleato strategico israeliano dopo le guerre e i lunghi anni di crisi (si tratta di intese tra governi più che un sentimento condiviso dalla popolazione, lo dimostra per esempio la vicenda del judoka egiziano Islam El Shehaby che ha rifiutato di stringere la mano del suo avversario, l’israeliano Or Sasson, nell’incontro olimpico di pochi giorni fa). Cairo e Gerusalemme condividono una preoccupazione che viene dal Sinai: per l’Egitto il pericolo è dato dai militanti di quella che adesso è una provincia dello Stato islamico, che attacca fino alla capitale e che ha messo in ginocchio l’industria turistica; per Israele c’è il passaggio nei vari valici che collegano la striscia con la penisola, punti di smistamento d’ogni genere di rinforzi a Gaza attraverso il sistema di comunicazione sotterraneo. La condivisione di intelligence, tra gli egiziani impegnati in una vera e propria operazione militare (per ora senza grossi risultati) e gli israeliani continuamente attivi nell’osservare le talpe di Hamas, è fondamentale. “Voglio ringraziare il presidente al Sisi per la sua leadership e per i suoi sforzi per far progredire la pace tra Israele e i palestinesi e in tutto il Medio Oriente” ha detto a fine luglio Netanyahu dalla residenza dell’ambasciatore israeliano a Tel Aviv. Durante lo stesso mese il ministro degli esteri egiziano, Sameh Shoukry, ha fatto visita in Israele: tema dell’incontro, il primo negli ultimi nove anni, la pace con i palestinesi. Il dialogo di pace tra Israele e Palestina stalla da diversi anni: sarebbe stato uno degli obiettivi di politica internazionale fissati da Barack Obama fin dalla prima elezione, ma l’Amministrazione americana non è mai concretamente riuscita ad aprire una vera via di colloquio, nonostante nel corso del tempo si sia allontanata dal partner storico israeliano per aprirsi di più alle richieste e alle posizioni di Mazen, la cui leadership però è notevolmente indebolita anche dall’età; e forse anche per questo, oltre che per le congiunture internazionali, Israele pensa che sia il momento giusto per stringere sulla via della pacificazione, anche perché il passaggio per Mosca potrebbe favorire Gerusalemme, che teme in un colpo di coda finale con cui Obama faccia pressioni non convenienti per forzare il processo prima di lasciare Washington. Da tempo circolano retroscena secondo cui Mohammed Dahlan, odiato rivale interno di Mazen, ex uomo forte di Fatah a Gaza, sia il successore preferito da diversi attori regionali, come egiziani (è stato molto attivo per il progetto di riapertura della diga tra Egitto, Sudan e Etiopia), israeliani e stati del Golfo, che adesso gli offrono residenza dopo che Hamas lo cacciò dalla Striscia nel 2007. Dhalan è un personaggio che però non piace troppo alla Turchia: a gennaio il giornale turco Gercek Hayat aveva parlato (in modo non verificabile, ma sufficiente a muovere l’opinione pubblica) di un piano per rovesciare Erdogan, sostenuto dagli Emirati, dalla Russia e dall’Iran, coordinati dal palestinese, e anche per questo attraverso i media della propaganda di governo dell’Akp è stato fatto il suo nome tra le accuse legate al golpe di lugli (Dahlan ha rapporti con il nemico pubblico turco Fetullah Gulen). Ma il 12 dicembre Dahaln era al teatro Mariinsky di San Pietroburgo (notare la location), invitato a un meeting elitario del Forum culturale dell’Unesco a cui ha partecipato Putin in persona.



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