Alla fine sarà comunque una bella sforbiciata. Il decreto legislativo che il consiglio dei ministri ha approvato ieri e che rende operative le nuove regole sulle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche dovrebbe interessare almeno 5 mila delle 8 mila aziende controllate da Stato, Regioni ed Enti locali (il primo obiettivo dell’esecutivo era quello di portare il numero totale a mille). Scatterà ora il percorso che nei prossimi mesi porterà gli azionisti pubblici a chiudere, vendere o aggregare le partecipate che non raggiungono il milione di euro di fatturato, o hanno bilanci in perdita strutturale (quattro esercizi in rosso sugli ultimi cinque, ma la regola non vale se le società gestiscono servizi pubblici), o non hanno dipendenti, o ne hanno un numero inferiore a quello degli amministratori.
Il riassetto delle partecipate è uno dei tasselli principali della riforma della Pa messa a punto dalla ministra Marianna Madia, che aveva garantito la sua operatività entro questa estate, ma la sua approvazione definitiva non è stata per niente agevole. Sul testo originale, uscito dal consiglio dei ministri a gennaio scorso, c’è stato un duro braccio di ferro con i parlamentari delle varie commissioni interessata sia alla Camera che al Senato, tanto che a metà luglio il governo è stato costretto a rinviare il voto finale per concedere un secondo passaggio del dlgs in Parlamento.
Alla fine, però, le richieste che avrebbero maggiormente stravolto il testo sono state respinte (come quella di abbassare la soglia minima di fatturato a 500 mila euro).
Le tappe successive, ora, saranno soprattutto due: entro febbraio 2017 gli enti dovranno scrivere il piano con l’alienazione, la vendita o l’aggregazione delle società fuori regola, e le misure scritte nel piano avranno un anno di tempo per essere attuate. Sempre entro sei mesi, le aziende pubbliche dovranno effettuare il censimento straordinario del personale per individuare gli esuberi, così da realizzare un elenco, all’interno del quale, fino al 31 dicembre 2018 dovranno obbligatoriamente attingere le società a controllo pubblico che volessero assumere nuovo personale a tempo indeterminato. Dal 2018 partiranno invece le revisioni ordinarie, pensate per evitare che dopo il taglio imposto dalla riforma la “giungla” delle partecipate torni a formarsi.
Le nuove norme non si applicano alle società quotate o che decideranno la quotazione nei 18 mesi successivi alla entrata in vigore della legge, e nemmeno a quelle società che producono “servizi strettamente necessari”. Rientrano in questa categoria i servizi di interesse generale, la progettazione e la realizzazione di opere pubbliche e l’autoproduzione di beni e servizi strumentali.
Per tutte le altre società partecipate scatterà la regola dell’amministratore unico, con limitate eccezioni (ma in quel caso i cda non potranno comunque avere più di 3 o 5 componenti). Amministratori e dirigenti non potranno percepire compensi superiori al tetto dei 240 mila euro lordi all’anno e in caso di uscita dall’azienda non potranno percepire altro che le indennità di fine rapporto fissate da legge e contratti di lavoro (saranno vietati, insomma, patti o accordi di non concorrenza).
Altra novità è l’accantonamento per eventuali perdite che le aziende dovranno mettere a bilancio in un apposito fondo. Inoltre le società a partecipazione pubblica potranno fallire o essere sottoposte a concordato come tutte le altre, mentre sarà più complicato per le amministrazioni creare nuove aziende pubbliche, visto che la loro apertura dovrà passare per una consultazione pubblica e sottostare all’esame di Corte dei Conti e Antitrust, e alla fine servirà anche l’autorizzazione della Presidenza del Consiglio.
Per le amministrazioni che non presentassero entro i termini previsti i piani di vendita, accorpamento e razionalizzazione scatterà una sanzione variabile tra i 5 mila e i 500 mila euro. A vigilare su tutto sarà un nuovo organo del ministero dell’Economia che avrà ampi poteri ispettivi, chiedendo alle imprese la documentazione necessaria ma anche effettuando ispezioni negli uffici e in caso di evidenti irregolarità potranno anche disporre l’amministrazione straordinaria.
I 5 Stelle avevano chiesto con forza che questo nuovo organo fosse indipendente dal Mef per evitare qualsiasi conflitto d’interesse, ma alla fine il governo ha preferito la strada della separazione funzionale dei nuovi uffici dal resto del ministero.
(Pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)