Con la morte di Ettore Bernabei, spentosi a 95 anni nella casa estiva all’Argentario, scompare non solo il mitico direttore generale della Rai degli anni Sessanta, fino al 1974, che si vantava di avere dato all’azienda radiotelevisiva di Stato una funzione educativa, ma l’ultimo testimone davvero della lunga partecipazione di Amintore Fanfani alla politica italiana, e spesso anche internazionale. Spesso più di un testimone, avendo sempre avuto grande influenza sul più volte segretario della Dc, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e presidente del Senato, per non parlare della presidenza dell’assemblea dell’Onu, dove a Fanfani toccò di dare per la prima volta in quella sede la parola a un Papa.
Per avere un’idea di quanta capacità di persuasione avesse Bernabei su Fanfani basta ricordare che fu lui, al quale si era rivolto confidenzialmente l’allora segretario socialista Bettino Craxi, a convincere nella primavera del 1978 l’allora presidente del Senato a compiere l’ultimo, per quanto inutile tentativo di strappare alla morte Aldo Moro: il suo antico rivale nelle vicende interne democristiane, che però dal 16 marzo era tenuto prigioniero dalla brigate rosse, pronte a scambiarlo solo con tredici detenuti per reati di terrorismo.
Fu nella sua abitazione romana che Bernabei riuscì a fare incontrare Craxi con Fanfani, il quale s’impegnò a intervenire nella riunione della direzione democristiana, convocata per il 9 maggio, con un discorso favorevole ad una iniziativa autonoma dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il quale, esaminate le posizioni dei detenuti dei quali le brigate rosse avevano chiesto la liberazione, aveva deciso di graziarne solo uno. Che era una donna, Paola Besuschio, condannata in via definitiva, ma non per omicidio, e ammalata.
Per firmare il suo atto di clemenza, considerato dai comunisti, allora partecipi della maggioranza parlamentare di cosiddetta solidarietà nazionale, contrario alla linea della fermezza imposta al governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti, il capo dello Stato aveva chiesto un minimo di copertura politica nel suo partito. Giel’avrebbe data appunto Fanfani con quell’intervento alla direzione. Dove però egli ebbe poi solo il tempo di prendere la parola, interrompendosi all’annuncio della notizia che i terroristi avevano già ucciso quella mattina Moro lasciandone il cadavere nel bagagliaio di un’auto perfidamente posteggiata in via Caetani, a pochi passi dalle sedi della Dc e del Pci.
Ancora venti anni dopo quella tragedia, che aveva segnato indelebilmente la storia della cosiddetta Prima Repubblica, Bernabei mi parlò con le lacrime agli occhi di quel vertice improvvisato a casa sua. Me ne parlò nella sede della sua Lux Vide, dove continuava a fare televisione producendo programmi storici di grandissimo ascolto, dopo essere passato dalla guida della Rai a quella dell’Italstat, un’azienda a partecipazione statale che progettava e realizzava le più importanti opere pubbliche.
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Peccato che non abbia fatto in tempo a chiedere a Ettore Bernabei, come pure mi ero proposto di fare, che idea si fosse fatta del referendum sulla riforma istituzionale targata dal suo giovane corregionale Matteo Renzi, tante volte considerato o scambiato per un emulo di Fanfani, ed evocato con ammirazione nelle aule parlamentari dalla ministra Maria Elena Boschi, aretina come lo scomparso leader democristiano. La politica era rimasta la sua passione. Non aveva mai smesso di seguirla e di interpretarla con i suoi metodi per niente superficiali, a volte persino troppo complessi.
Ricordo che una volta, reduce da un incontro con lui, nei primissimi anni di vita del Giornale fondato nel 1974, aiutato a nascere anche da Fanfani per fronteggiare la svolta a sinistra del Corriere della Sera rappresentata dalla direzione di Piero Ottone, un Indro Montanelli non so se più scettico o incuriosito, mi disse: “Ma Bernabei vede sempre tutto collegato a vicende internazionali e ai servizi segreti: anche la più banale delle nostre vicende di casa”.
Ho comunque il sospetto che, pur non considerandolo certamente all’altezza politica di Fanfani, per lui irraggiungibile, Bernabei fosse un po’ attratto dall’avventura di Renzi, e magari anche disposto a votarne la riforma costituzionale. Cosa che ha appena annunciato di voler fare l’ex ministro prodiano della Difesa Arturo Parisi, da non confondere con Stefano Parisi, l’uomo incaricato da Silvio Berlusconi di rianimare il campo dei moderati e pronto, secondo le ultime dichiarazioni, a proporsi come leader di un nuovo centrodestra nelle apposite primarie. Se mai si riuscirà ad arrivarvi, dopo tanti tentativi falliti per i dubbi o i veti dell’ex presidente del Consiglio.
Il sì di Parisi, che ha trovato la riforma di Renzi in linea con i progetti del centrosinistra dell’Ulivo rappresentato e guidato negli anni passati da Prodi, sarà sicuramente piaciuto al segretario del Pd e capo del governo. Che tuttavia preferirebbe ancor più un altro sì pubblico: quello dello stesso Prodi, che continua invece ad essere prudente. “Non so –gli hanno appena attribuito alcuni giornali-se mi schiererò sul referendum”.
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Sul fronte del no alla riforma costituzionale cresce l’ossessione per le iniziative che potrà prendere Renzi. Quelli del Fatto Quotidiano, per esempio, gli contestano persino la volontà di promuovere una campagna pubblicitaria sui treni non per il sì o per il no ma solo per il referendum, allo scopo di invogliare il pubblico a parteciparvi.
E’ una curiosa pretesa, questa, di non pubblicizzare al massimo l’appuntamento referendario, proveniente da chi di solito accusa il governo di voler mettere la sordina a questi passaggi politici. Il fatto è che, diversamente dai referendum abrogativi per i quali una bassa partecipazione alle urne, inferiore alla maggioranza degli aventi diritto al voto, basta a vanificarne i risultati, come spesso il governo ha interesse che accada, questa volta quanto più alta sarà l’affluenza alle urne tanto più il governo avrà la possibilità di vincere la partita, mancando il cosiddetto quorum.