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La battaglia di Aleppo e il futuro della Siria

Negli ultimi due giorni le formazioni dei ribelli siriani che combattono ad Aleppo hanno dichiarato di aver rotto l’assedio che durava da mesi, penetrando nell’area della Scuola di Artiglieria, dove hanno catturato soldati e paramilitari lealisti e preso un bottino di guerra composto da una dozzina di carri armati e blindati, alcuni lanciarazzi BM-21 Grad, diverse munizioni e varie armi di piccolo e medio taglio, e pure un cannone S23 che può sparare a 30 km di distanza. L’offensiva lanciata dai ribelli per sfondare l’isolamento imposto dalle truppe governative era iniziata il 31 di luglio.

Nella mappa, prodotta da uno dei gruppi combattenti, un raggruppamento di milizie che prende il nome di Jaish al Islam (che comprende anche l’ex qaedista Jabhat Fateh al-Sham), sono segnate in rosso le aree controllate dalle forze fedeli al regime, in verde la breccia aperta dagli anti-Assad nell’area orientale della città. I media governativi, noti anche per il loro ruolo propagandistico, sostengono che in realtà quel corridoio di due chilometri aperto dai ribelli è ancora conteso.

È stata dura comunque la reazione degli aerei siriani, e di quelli russi – che, insieme ai comandanti iraniani che pianificano da terra, agli Hezbollah e alle altre milizie sciite mobilitate (cuore, sangue e polmoni di un Bashar el Assad rimasto ormai quasi senza un esercito), rappresentano la controffensiva governativa ai ribelli. I combattenti delle opposizioni aveva iniziato la loro campagna di liberazione bruciando pneumatici per creare una cortina fumogena e proteggere la propria avanzata dall’aviazione di Assad, che però ha continuato a bombardare “alla cieca”. Damasco colpisce Aleppo per distruggere, senza riguardo tra obiettivi civili o militari (nelle ultime tre settimane sotto le bombe sono finiti ospedali, campi di accoglienza per gli sfollati, i depositi alimentari dell’Onu); anche Papa Francesco nel dopo-Angelus ne ha parlato, sostenendo che le popolazioni innocenti pagano “il prezzo del conflitto, il prezzo della chiusura di cuore e della mancanza della volontà di pace dei potenti”.

La situazione è tragica, 250 mila civili vivono ancora intrappolati nelle zone martellate dai combattimenti, mentre il controllo della città è valutato come il principale obiettivo strategico da entrambi i fronti: ribelli e lealisti lo considerano un passaggio chiave per vincere definitivamente la guerra. Perché ancora di questo si parla, vincere e conquistare il paese, nonostante agosto 2016 era stato indicato come il mese in cui avviare la transizione politica al potere per raggiungere una soluzione politica alla crisi sotto egida delle Nazioni Unite. “La Russia si attacchi ai suoi cannoni in Siria e mostri al mondo intero che abbiamo ragione”, ha detto al telefono alla Bloomberg Frants Klintsevich, vice capo del Comitato di difesa nella camera alta del parlamento russo: e questo basta per capire il clima che sta accompagnando queste fasi della battaglia, che avvengono mentre sembrava esserci un avvicinamento di intenti tra Mosca e Washington, e nazioni rispettivamente collegate. Anche se consulenti importanti della campagna presidenziale di Hillary Clinton, come Jeremy Bash che al Telegraph ha detto di voler Assad “fuori di lì”, continuano a pensare una soluzione senza il rais a Damasco, secondo l’ultimo ambasciatore americano in Siria Roberto Ford “la sopravvivenza di Assad non è più in questione” (dichiarazione fornita anche questa alla Bloomberg). Se i ribelli riusciranno a sfondare e riconquisteranno terreno, allora Mosca potrebbe realmente fare pressione perché Assad lasci, altrimenti è molto probabile che il nuovo presidente americano si troverà a dover negoziare anche con un regime che, seppur fiaccato da anni di conflitto, mantiene il controllo di diverse delle principali città siriane. E molto dipenderà dall’esito finale della battaglia in corso ad Aleppo.

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