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La Turchia di Erdogan, le testate Nato, il flirt con la Russia e le bombe sui curdi

Gli Stati Uniti stanno spostando le armi nucleari fuori dalla base turca di Incirlik per indirizzarle in Romania, a Deveselu. È una delle notizie che circola con più insistenza in questi giorni, caratterizzati dalle purghe del post-golpe turco, dal complicarsi delle relazioni tra Ankara e Occidente, dall’incontro tra il presidente Recep Tayyp Erdogan e l’omologo Vladimir Putin che da San Pietroburgo hanno segnato l’inizio di una nuova fase nei rapporti tra i due Paesi, che insieme alla collaborazione economica e commerciale non esclude quella militare e politica.

COSA FARE CON LE BOMBE ATOMICHE IN TURCHIA

A diffondere il report più dettagliato sullo spostamento delle 50 testate americane B61 ospitate nella grande base del sud della Turchia, il principale avamposto in Medio Oriente della Nato (di cui, non dimenticarsi, la Turchia è membro) e strategico punto logistico per la lotta allo Stato islamico, è stato il sito Euroactiv.com, che ha corroborato l’articolo scoop con due fonti anonime “indipendenti”. La notizia è stata ripresa subito da siti che invece non sono proprio “indipendenti”, come Breitbart, piattaforma politica conservatrice fino a pochi giorni fa diretta dal nuovo chief executive della campagna elettorale di Donald Trump, Stephen Bannon (a cercare c’è una linea speculativa: Trump è stato diverse volte accusato di avere legami con la Russia, che è il secondo paese, dopo la Turchia, ad essere più interessato dall’eventuale spostamento). Mentre altri media, che si occupano di verificare le notizie indipendentemente, per il momento non hanno trovato conferme: un “fonte” della Stampa, citata nell’articolo dell’inviata in Turchia Marta Ottaviani, rivela per esempio che “in questi giorni non ha notato alcun movimento sospetto alla base di Incirlik”. Di certo, però, è argomento di dibattito: il Deutsche Welle ha fatto un giro tra gli esperti, e la conclusione è che quelle bombe nucleari americane in Turchia “non hanno alcun valore militare e pongono rischi inutili”; sintesi: “Perché sono ancora lì?”. Stessa opinione, più o meno, di quella espressa da Steve Andreasen (ex direttore per le politiche di difesa e di controllo degli armamenti nello staff del Consiglio di Sicurezza Nazionale dal 1993 al 2001, e consulente per la Nuclear Threat Initiative), che con un op-ed uscito la scorsa settimana sul Los Angeles Times, sosteneva che le armi nucleare americane devono essere rimosse dalla Turchia per due ragioni: il clima di incertezza, il crescente anti americanismo di Ankara (da giorni si ripete, mai formalmente, una messaggio di minaccia turco agli Usa: o ci consegnate Fetullah Gulen, che vive autoesilitato in America e Erdogan accusa di essere il mandante del golpe fallito il 15 luglio, oppure chiudiamo all’uso di Incirlik in funzione anti-IS). Un report uscito qualche settimana fa dallo Stimson Center, think tank di Washington concentrato su argomenti per la pacificazione internazionale, scrive che il principale dei rischi di mantenere le armi nucleari in Turchia sta nel fatto che potrebbero finire in mano a “forze ostili”: uno scenario iperbolico, visto il livello di protezione che hanno le camere blindate in cui sono protette le testate (per altro utilizzabili solo con i codici di cui è dotata la valigetta del Commander in Chief), ma un rischio nemmeno troppo remoto vista l’instabilità turca. All’inizio di agosto, l’esperta in materia atomica militare Amy Woolf ha invece compilato un report su richiesta del Congressional Research Service americano sulla sicurezza delle testate depositate in Turchia; il report passerà tra le mani di rappresentati e senatori. Risultato: i bunker sotterranei sono sicuri, e dunque, ci sono ragioni per spostarle? Secondo Woolf un diverso dispiegamento potrebbe avere anche come conseguenza un atteggiamento più collaborativo da parte della Russia, ma se le armi dovessero finire sul cosiddetto “fronte orientale” della Nato, ossia i Paesi baltici, la Polonia o la Romania, allora si potrebbe ottenere l’effetto opposto. E in effetti il Cremlino ha già tenuto un atteggiamento teso sulle notizie a proposito del viaggio verso Deveselu delle bombe: contemporaneamente, dice l’analisi di Woolf, la Turchia potrebbe registrare una perdita di fiducia. La presenza delle basi nucleari Nato è a tutt’oggi il principale filo a doppio intreccio che lega Ankara all’Occidente, distanti su tutto il resto, dalle visioni politiche interne, agli atteggiamenti democratici, fino alle letture geopolitiche e geostrategiche.

L’INCLINAZIONE DELL’ASSE MOSCA-ANKARA

Sullo sfondo l’avvicinamento di Russia e Turchia, con la prima considerata il principale threat globale dalla Nato, e la seconda nevralgico polo strategico dell’Alleanza nella cruciale area mediorientale e serbatoio atomico nato durante la Guerra Fredda anche come deterrente verso Mosca. I segnali non mancano, e la macchina propagandistica russa s’è già messa in movimento. Il 18 agosto è uscito sul network media del Cremlino Russia Today un articolo in cui si è enfatizzata notevolmente un’intervista concessa dal ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu a un altro media del governo, cugino di RT, Sputnik. Il fidato di Erdogan ha preso la seguente posizione: la Nato si comporta con noi in modo ambiguo, vogliamo sviluppare la nostra industria militare, vogliamo tecnologie, le quali potrebbero venirci offerte dalla Russia e a quel punto saremmo disposti anche a prendere in considerazione la possibilità di una partnership, perché “è naturale cercare altre opzioni”, la Nato non può dirci con chi dobbiamo incontrarci; ciliegina sulla torta, “Quello che sta accadendo in Ucraina è un riflesso dei principali problemi della regione”, la Nato ha forzato la mano a Kiev chiedendogli di scegliere “o loro o la Russia” (il “loro”, detto dal membro con il secondo esercito per componenti dell’Alleanza Atlantica, ha un certo significato). Sulla stessa linea: una settimana fa l’ambasciatore turco in Russia, Umit Yardim, ha detto che la NATO non ha alcun diritto di dettare la politica estera di Ankara.

LE BOMBE SUI CURDI NEMICI DELLA TURCHIA

Le “bordate” di Cavusoglu, così le definisce compiaciuta RT, trovano sponda negli atti pratici: giovedì 18 agosto, per la prima volta in cinque anni di conflitto, il regime siriano ha lanciato attacchi aerei contro i curdi nell’area di Hasaka; sembra, ma sono informazioni che non hanno conferme definitive, che velivoli della Coalizione internazionale a guida americana siano intervenuti in una missione “no combat” di superiorità aerea per depistare i jet siriani. Là i miliziani del Rojava, la regione semi-indipendente al nord della Siria abitata da persone di etnia curde, stanno combattendo contro lo Stato islamico in un’alleanza con forze arabe locali che prende il nome di Syrian Democratic Force, e che riceve il sostegno diretto da parte delle forze speciali americane: per capirci, sono gli stessi che la scorsa settimana hanno liberato Manbij dai baghdadisti, con le foto di quell’atto di libertà che sono diventate virali. Damasco li ha bombardati ufficialmente perché teme che l’indipendenza che i curdi del nord stanno acquisendo stia diventando troppa, anche se tutto questo non era mai successo prima, e sebbene quell’indipendenza fosse uno dei pochi argomenti di trattativa su cui Bashar el Assad sembrava disposto a un passo indietro. Da qui parte una speculazione semplice e diretta: i raid contro i curdi siriani delle milizie Ypg partono nel momento in cui Mosca flirta con Ankara e vuole lusingarla con gesti che possano piegare verso oriente l’asse di interesse turco. Le milizie curde siriane sono alleate fraterne del Pkk turco, a cui Erdogan a dichiarato nuovamente guerra qualche mese fa. Nel Kurdistan turco (la fascia meridionale del paese) nello stesso giorno dei bombardamenti siriani su Hasaka ci sono stati alcuni attacchi terroristici che hanno ucciso 12 agenti di polizia, ferendo decine di persone.

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