Visto che è difficile capire il presente e prevedere il futuro, possiamo accontentarci che qualcuno ogni tanto ci aiuti a capire il passato. È un merito che riconosco volentieri questa volta all’ex segretario della Dc Ciriaco De Mita. Eppure con lui non ho avuto in generale un buon rapporto nella mia lunga attività professionale, dopo una iniziale e reciproca simpatia.
Cominciammo a non capirci e a non riconoscerci più quando De Mita, già allora esponente di punta della sinistra più politica della Dc, diversa da quella sociale di Carlo Donat-Cattin che io preferivo, cominciò a parlare degli alleati socialisti come di “un chiodo puntato su una parete che non c’interessa più”. Egli preferiva “scommettere piuttosto sull’evoluzione del partito comunista”, come il mio amico Arnaldo Forlani soleva tradurmi la linea politica di Ciriaco, che era stato suo vice nella prima esperienza di segretario della Dc.
In verità, De Mita quando pronunciò quelle parole qualche ragione poteva averla. I socialisti, allora guidati da Francesco De Martino, erano insofferenti della collaborazione con la Dc temendo l’opposizione comunista. Alla quale poi si sarebbero praticamente arresi annunciando che non sarebbero mai più tornati al governo con i democristiani senza l’appoggio del Pci. Tanto valeva, allora, tessere direttamente un rapporto con i comunisti, senza l’intermediazione dei socialisti, venne in testa di dire e di fare a molti esponenti della Dc, e non solo di sinistra.
Il guaio fu che De Mita continuò a pensarla più o meno così anche quando al Psi fu restituita piena autonomia nel rapporto col Pci da Bettino Craxi. Cui nel 1983 proprio De Mita, eletto l’anno prima segretario della Dc, dovette concedere la guida di un governo di coalizione –il famoso pentapartito, esteso dai liberali ai socialisti- dopo un turno elettorale in cui lo scudo crociato aveva perso più di cinque punti percentuali.
Fu, quella fra De Mita e Craxi, una collaborazione difficilissima. Essi diffidavano reciprocamente della loro furbizia e forza di carattere. “Avevamo entrambi le palle”, ha appena ricordato De Mita in una lunga intervista a Vittorio Zincone pubblicata in tre puntate su Sette, il supplemento del Corriere della Sera, commentando le scommesse che allora facevano politici e giornalisti su chi dei due le avesse più grandi. Ah, se avessero entrambi impiegato le loro energie più per andare d’accordo che per farsi la guerra o i dispetti.
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La diffidenza e l’ostilità politiche, secondo lui compensate miracolosamente ad un certo punto da eccellenti rapporti personali, non hanno impedito a De Mita di riconoscere ora che nel 1992, allo scoppio di Tangentopoli, il discorso pronunciato da Craxi nell’aula di Montecitorio sulla pratica diffusa del finanziamento irregolare o illegale dei partiti “se condiviso, avrebbe potuto costituire una via di uscita dignitosa e autorevole”.
Ma gli altri partiti e leader, pur partecipi di un comune balordo sistema di finanziamento della politica, con tangenti e sovvenzioni non registrate in bilancio, non vollero condividere le ammissioni del segretario socialista e la conseguente proposta di non liquidare la realtà come criminale per cercare invece una soluzione extra-giudiziaria. “Era un momento in cui il rapporto nei partiti e fra i partiti si era slacciato. E così abbiamo preferito sbranarci a vicenda”, ha detto De Mita. Che ha anche ricordato, e condiviso, quanto i governanti giapponesi gli raccontarono durante una sua visita a Tokio, da presidente del Consiglio, rispondendo alle sue domande su come il loro paese avesse superato la sconfitta nella seconda guerra mondiale. “Siccome avevano sbagliato tutti –ha riferito l’ex segretario della Dc- era stato considerato inutile trovare un capro espiatorio”. Come fu deciso invece di fare con Craxi per chiudere, anzi per illudersi di chiudere la vicenda di Tangentopoli.
A quell’errore però De Mita partecipò. Non lo commisero soltanto gli altri partiti e gli ultimi due segretari del suo, Arnaldo Forlani e Mino Martinazzoli, come egli ha invece mostrato di credere dicendo che la Dc finì “per volontà del Padre Eterno” avendo perduto la “grande motivazione ideale” dei primi tempi ed essendo stata guidata “negli ultimi anni da persone poco competenti”. Ecco che, cacciati dalla porta, rientrano dalla finestra i capri espiatori.
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Da quell’errore di non aver voluto trovare una cosiddetta via d’uscita politica da Tangentopoli nacque la distorsione nei rapporti fra la stessa politica e la giustizia, o la magistratura, che ancora continua. E dalla quale non sono alla fine riusciti a trarre vantaggio neppure quelli che via via l’hanno tollerata o alimentata: prima i comunisti, poi i leghisti –quelli del cappio sventolato nell’aula di Montecitorio – e ora i grillini. Che dopo avere usato gli avvisi di garanzia come bastoni contro gli avversari sembrano già destinati a farvi i conti pure loro, ora che la buona o cattiva sorte elettorale, come preferite, li ha portati a funzioni di governo in città a rischio come Roma.
D’altronde, si sa, chi semina vento raccoglie tempesta. Chi asseconda il moralismo alla fine ne viene investito. Lo sta sperimentando anche De Mita in queste ore, vedendo tornare sui giornali la vicenda del grande e blindatissimo attico romano vicino alla Fontana di Trevi prima affittatogli, poi cedutogli da un ente previdenziale e ora messo in vendita da lui a 11 milioni di euro, contro gli scontati 3 milioni 415 mila e 700 dell’acquisto, nel 2011. Sono cifre del Corriere della Sera.