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Libia, ecco i 3 obiettivi diplomatici dei raid Usa anti Isis a Sirte

Arpino

Meravigliava il velo di silenzio che da alcuni mesi era stato steso sulla vicenda libica. Significativamente questo mutismo internazionale – ma sopra tutto italiano, dopo la contorta evoluzione del Renzi-pensiero in materia – era stato autorevolmente infranto il 21 luglio scorso dalle parole ed i concetti espressi dal ministro Paolo Gentiloni nel corso del convegno sulla Politica Estera italiana indetto a Roma dall’Istituto Affari Internazionali. Per quanto cauto, il suo interloquire aveva lasciato assai netta la sensazione che questo lungo silenzio non significava affatto inazione. Anzi, su alcuni tavoli molto riservati il problema libico – con il nostro fattivo apporto – continuava ad essere vivo ed attuale più che mai. Ieri abbiamo avuto la prova tangibile, invero un po’ “rumorosa”, che nei mesi scorsi la diplomazia internazionale, assieme all’intelligence, ha lavorato con tenacia, seppure senza alcuna certezza di successo.

L’intervento aereo Usa iniziato ieri su Sirte e dintorni (l’ultimo era dello scorso febbraio) significa che qualcosa si è sbloccato.  Ricordiamo, solo per un attimo, che le forze che fanno capo al GNA (Lybian Government of National Accord, legittimato dall’Onu) nei mesi scorsi avevano “liberato” alcune aree nei pressi della città, costringendo le forze jihadiste ad asserragliarsi in alcune aree chiave. Poi gli attaccanti (prevalentemente formati dalle milizie di Misurata, quelle di Zintan e parte dei “guardiani del petrolio” dell’ondivago Ibrahim Jadran), si erano improvvisamente fermati. Senz’altro per riequipaggiarsi ed addestrarsi, ma soprattutto per evitare scontri con le forze del filoegiziano generale Haftar, che procedevano contro l’Isis da est, ma con finalità diverse.

Poi, anche queste forze si sono fermate. Potenza dell’Isis? Non proprio. Potenza, invece, della diplomazia, cui l’Italia ha dato un apporto tanto discreto, quanto sostanzioso. Infatti, prima di muoversi ulteriormente sotto il profilo militare c’erano da evitare almeno tre cose. Una l’abbiamo citata, lo scontro con Haftar. La seconda, scongiurare un sempre possibile intervento della Russia, con un Putin pronto, come al solito, ad occupare ogni spazio vuoto. La terza, evitare che gli impazienti alleati franco-britannici, sicuramente presenti in zona, consolidassero in modo irreversibile il rapporto con il presidente egiziano al-Sisi, i cui interessi sembravano ormai in rotta di collisione con quelli unitari del GNA. E, ovviamente (è sempre stato così), di quelli italiani.

Evidentemente la diplomazia ha lavorato bene, ed ora si possono riprendere i fuochi d’artificio. Lo schema non richiede molta fantasia, e sembra ricalcare quello già percorso nel 2011, con gli Usa che intervengono nei primi giorni con una potenza aerea risolutiva, per poi lasciare campo libero agli alleati europei. Pronti a seguire, come al solito, una volta che il “lavoro sporco” è terminato

Nulla di nuovo. Così Obama, dopo l’abbraccio televisivo alla convention democratica, dà un “aiutino” alla Clinton, riscattandola in anticipo dalle pregresse accuse sulla gestione degli affari americani in Libia. Gli alleati Ue, a cose fatte, potranno raccontare al popolo che hanno punito severamente il Califfo per la serie nera degli attentati nelle città europee. Forse, chissà, agli anglo-francesi si aggregheranno anche i tedeschi.

E l’Italia, che doveva guidare le forze della riscossa? Per ora ha ”già dato”, con la diplomazia. Poi c’è il contributo militare, che è apprezzato e continua. Anzi viene incrementato, ma solo in Afghanistan e in Iraq, e senza dover sparare o bombardare. D’altra parte, alle richieste dell’amico Obama qualche volta bisogna pur dire di sì…


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