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Lo spirito olimpico in vacanza dalle Olimpiadi

Il judoka egiziano Islam El Shehaby non ha stretto la mano al collega israeliano Or Sasson che in un incontro alle Olimpiadi di Rio lo aveva appena battuto. El Shehaby (poi rimpatriato dalla sua federazione con il trolley pieno di esecrazioni) è stato mandato dal suo allenatore nuovamente sul tatami a eseguire solo l’inchino obbligatorio, ma la mano tesa dell’avversario è rimasta vuota. Nel giorno dell’inaugurazione, la squadra libanese aveva fatto chiudere le porte dell’autobus che l’avrebbe portata allo stadio Maracanà per la cerimonia, prima che quella di Israele potesse salirvi. Ancora qualche giorno prima, i sei atleti arabi che rappresentano la Palestina (invitati dal Cio anche se non avevano i risultati per partecipare) sono arrivati a Rio con i soli vestiti che avevano addosso perché alla dogana di Israele i bagagli erano rimasti bloccati in aeroporto per un pignolissimo surplus di controlli.

Lo spirito olimpico, che passa per un valore laico universale, non è da cercare nelle Olimpiadi. Però non è che non ci sia. Sta nascosto, mette fuori la testa altrove. Proprio nei giorni in cui avvenivano gli “incidenti” testè raccontati, abbiamo assistito al concerto di un quartetto di archi. Si era al festival di musica classica “Incontri in Terre di Siena”, alla 28esima edizione. Tal First, 20 anni, Ella Bukszapan, 19 anni, Jeries Saleh, 16, Mahdi Saadi, 21, due ebrei e due arabi di Israele, hanno suonato in quartetto e insieme con il pianista Saleem Ashkar, che si è esibito anche da solista con tre sonate di Beethoven. Hanno eseguito il Quintetto in Sol minore op. 57 di Sostakovic ed estratti dall’opera “The named angels” di Mohammed Fairouz. Il luogo, un favoloso scorcio delle colline toscane, era il Cortile di Fattoria, in una frazione chiamata La Foce, a poco da Chianciano. Il pubblico, trecento persone, molti turisti stranieri, si è radunato dal nulla e si è disperso di nuovo tra i filari di sangiovese e gli ubertosi saliscendi della Val d’Orcia.
Questi ragazzi appartengono alla Polyphony Youth Orchestra, ensemble che nasce da un singolare conservatorio che ha sedi a Nazareth e Jaffa. L’ideatore è il violinista Nabeel Abboud-Ashkar, ex allievo, come il fratello pianista, della West-Eastern Divan Orchestra, che riunisce musicisti arabi ed ebrei, fondata nel 1999 da Edward Said e Daniel Barenboim.

Dieci anni fa, quando è nato, a Nazareth, il conservatorio aveva 25 studenti, oggi sono oltre 140. Lo scopo del progetto è di fare un passo in più rispetto alla creatura di Barenboim: non solo promuovere la collaborazione e la conoscenza pacifica dell’ ”altro” tout court, ma di stringere il campo della convivenza condivisa a quelli che altrimenti vi sarebbero semplicemente costretti, cioè la terra di Israele. In realtà, la sua vera efficacia sta nel dare ai giovani arabi di Israele pari opportunità di studiare musica: “Lo Stato stanzia la maggior parte dei fondi per gli studenti ebrei”, informa Nabeel. I fondi arrivano solo per il 20 per cento dal governo, il resto da donazioni private e da quanto ricavano con la loro attività didattica e concertistica.
Insomma, questi giovani il Villaggio se lo portano con sé, nella custodia del violino, sul palcoscenico: suonano insieme e viaggiano insieme. Esercitano le virtù olimpiche senza sudare né pestarsi, tantomeno hanno nozione di che cosa sia prevalere. Quando cerchiamo di parlare con loro, sono stupiti, sembrano anche un pochino seccati: l’intervista è un accidente fra una prova e l’altra, e la risolvono aspettando ostentatamente che i giornalisti si stanchino e vadano via.

Non sono i muscoli a dare le vittorie, ma la testa. Questa cosa, così banale, sia gli atleti sia chi guida la più importante manifestazione di ecumenismo al mondo sembrano non averla mai capita. Camillo Langone, parlando dei Giochi come di una “sagra del deltoide”, fra l’altro molto cara a Hitler, ha scritto, oggi sul Foglio, che le Olimpiadi sono un’oscena esibizione di eugenetica pura. Forse ha ragione. “Non esiste tiranno a cui piacciano le prestazioni del cervello”. Lo sport “ha qualcosa di nazista, di zootecnico e di anticristiano: il miglioramento genetico è nato negli allevamenti”.

Senza cercare di spingersi alle altezze di Langone, dagli episodi alle Olimpiadi e dalla questa nostra esperienza, abbiano ricavato un fatto chiaro: che corpi e cervelli negli uomini vivono separati. Nelle attività dei primi prevale l’ormonalità della competizione; dove lavorano i secondi, specie se sono giovani, troviamo invece qualche speranza. Flebile, eh: abbiamo provato a interrogare i quattro ragazzi e abbiano ottenuto da ciascuno un monosillabo e una frase fatta, che mischiati formano il concetto “non ci importa, noi suoniamo”.
Ma non risiede forse in questa flebilità, la nostra speranza? Essere troppo consapevoli spinge di suo al fanatismo, sul lastricato delle buone intenzioni. Questi qui, che vivono in mezzo a una guerra che probabilmente non vedrà mai la fine, invece suonano e se ne infischiano. Questa è una specialità che vorremmo vedere introdotta ai Giochi: l’infischio disatletico transnazionale. Nessuno mostra i muscoli, nessuno si pesta, nemmeno giustificato dal gioco e dalle sue regole, nessuno fa comunella, nessuno pensa troppo alle cose sue rispetto a quelle altrui. Ai quattro pulzelli piace suonare, a loro non importa che lingua gli tocca parlare per capirsi (l’ebraico per tutti), e nemmeno troppo di pensare perché lo fanno insieme. Fanno tintinnare le corde, riempiono l’aria, non spargono sale sul loro cielo.


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