Skip to main content

Un paio di idee non populiste per Renzi e Padoan

Da un  po’ di tempo a questa parte, i sondaggi sulla popolarità del governo e dei suoi membri vedono in testa Pier Carlo Padoan. Eppure il ministro dell’economia è sulla graticola: dalle crisi bancarie a una ripresa che perde colpi, non sono pochi i motivi di scontento. Come si spiega questa anomalia? E come si giustifica soprattutto la contraddizione evidente tra la popolarità di Padoan e l’immagine che del popolo sovrano viene offerta ogni giorni dai mezzi di comunicazione e da autorevoli persuasori non proprio occulti?

A leggere i giornali e a guardare la tv, checché se ne dica sulla “normalizzazione” filo-governativa, emerge rabbia, frustrazione, disperazione e rivolta. Dall’incendio purificatore evocato da Paolo Mieli sul Corriere della Sera, al “far saltare il tavolo” di Cesare Romiti, dai no sonori e solenni di Carlo De Benedetti alle omelie domenicali di Eugenio Scalfari, esponenti di rilievo della classe cosiddetta dirigente fanno a gara nel nutrire quella vocazione sovversiva della quale già parlava Antonio Gramsci. Invece, si scopre che allo stesso popolo (se i campioni statistici dicono il vero) piace la forza tranquilla che emana da Pier Carlo Padoan. Forse l’onda populista che ha portato i pentastellati al comando di due città importanti come Roma e Torino, sta scemando davanti alla monnezzopoli romana e alle trovate vegane della Appendino? E’ presto per arrivare a conclusioni tanto nette, ma tentiamo una chiave di lettura.

In pochi mesi sono successe cose che hanno inciso sugli umori della opinione pubblica. Gli eventi di maggiore impatto sono stati senza dubbio gli attentati del terrorismo islamico e la Brexit. I primi, con la terribile catena di sangue che ha attraversato la Francia, il Belgio e la Germania, hanno diffuso senza dubbio ansia e paura. La teoria dei lupi solitari non regge più, sembra chiaro invece che lo Stato islamico in ritirata dal territorio del quale si era impadronito, a cavallo tra Siria e Iraq, cerca di portare l’attacco al cuore dell’Europa utilizzando quelle microcellule nate nei paesi dove più forte è la radicalizzazione politica tra gli immigrati musulmani di seconda generazione. Fino a questo momento, il terrorismo del Califfo così come quello di Al Qaeda, ha provocato lutti e dolore, ma non ha intaccato le società e gli stati europei. Alla lunga potrà accadere, sia chiaro, ma dipende dalla capacità di risposta dei governi e delle classi dirigenti le quali sono chiamate non a lasciar divampare gli incendi, ma a spegnerli con tutte le forze a loro disposizione, non a far saltare i tavoli, ma a riparare le loro gambe affinché non zoppichino.

La Brexit, intanto, ha dimostrato ancora una volta che il popolo, nell’esercizio della sua sovranità, soprattutto se si fa manipolare (come di solito avviene) può creare seri pasticci. Gli elettori inglesi hanno seguito l’incantatore Farage come i bambini di Hamelin seguirono docili il pifferaio magico. Poi hanno scoperto che le cose sono ben più complicate e il loro capo, riconoscendosi incapace di gestire la vittoria, li ha abbandonati. Adesso la signora Theresa May sta correndo da una capitale all’altra per dire che nulla cambia, gli inglesi, sempre in vena di humour e paradossi, hanno scherzato. Va a Berlino e dice che con la Germania è tutto come prima. Viene a Roma e assicura che gli italiani sono sempre i benvenuti, nulla cambia. E così via. Ma come, il popolo britannico non era furibondo perché gli altri europei rubano loro il lavoro e l’assistenza sociale?

Se le cose stanno così, comincia a farsi largo l’idea che di fronte agli scompigli provocati in poco tempo, c’è bisogno non di confuso ribellismo, ma di sicurezza, di pacatezza, di competenza, di una forza tranquilla. La paura, l’incertezza, il disincanto e lo sconcerto, tutto questo resta, di fronte a forze in gran parte nuove che nessuno riesce a controllare. Ma si sta mettendo in moto una resistenza che non lascia spazio a nuovi avventurismi. I segnali ci sono, anche se è presto per capire se diventeranno tendenza.

Guardando al duraturo consenso del suo ministro dell’economia, il messaggio che Matteo Renzi dovrebbe lanciare non è più quello ansiogeno e movimentista della prima fase. Piuttosto dovrebbe seminare sicurezza attorno a sé. In concreto, ciò vuol dire tre cose: legge e ordine, meno tasse, attacco alle iniquità e agli sprechi. Il primo punto è decisivo e bisogna prendere misure evidenti con un chiaro impatto simbolico (dal poliziotto di quartiere all’esercito nelle metropolitane). Il secondo richiede di concentrare le limitate risorse sul lavoro invece di promettere aiuti a pioggia. Il terzo rimanda a un intervento massiccio e credibile nel ventre molle della spesa pubblica. Renzi con l’intervista alla Repubblica ha annunciato una ripartenza in autunno, stagione chiave anche perché dovrebbe svolgersi il referendum costituzionale. Ma ha ripetuto il mantra sulla fine dell’austerità, senza dire nulla sulla strada che intende imboccare. Invece sarebbe tempo di aprire un dibattito dentro e fuori il parlamento, ascoltando il popolo e i corpi intermedi, ma su proposte concrete, compito che spetta alle classi dirigenti.


×

Iscriviti alla newsletter