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Perché la riforma della Costituzione è indispensabile

Sì, questa riforma è urgente e indispensabile. Su questo, coloro che la pensano diversamente sono veramente pochi (gli stessi oppositori della riforma la ritengono necessaria, ma giudicano le soluzioni individuate nel testo approvato dal Parlamento sbagliate).

In sintesi:

– gli stessi padri costituenti si dissero insoddisfatti del tipo di Parlamento sul quale avevano raggiunto un accordo: ciò è tanto vero che sin dal gennaio 1948 le stesse forze che avevano votato la Costituzione cominciarono a prendere le distanze dal bicameralismo delineato in Costituzione (basti pensare che votarono due leggi elettorali quasi eguali; che nonostante una durata del Senato prevista in 6 anni invece che 5 come la Camera già dal 1953 si provvide a sciogliere in anticipo il Senato per evitare lo sfalsamento di date; e che nel 1963 si riformò una prima volta questa parte della Costituzione per ridurre a 5 anni la durata del Senato, uniformandola a quella della Camera);

– nessun paese al mondo aveva (ha) un Parlamento come il nostro, nel quale due diverse assemblee entrambe elette direttamente fanno esattamente le stesse cose: un vero e proprio doppione, causa di lentezze, inefficienze, costi, instabilità (le leggi van tutte votate due volte da due Camere diverse; il governo deve avere una maggioranza in due Camere e non in una sola, e così via);

– da più di trent’anni le forze politiche (della cosiddetta Prima come della cosiddetta Seconda Repubblica) concordano sull’esigenza di riformare il Parlamento: è difficile pensare si siano tutti sbagliati e per tutto questo tempo!

– inoltre da quando – primi anni Novanta – si è cercato di costruire una democrazia maggioritaria (fondata sull’idea che gli elettori conferiscono periodicamente alla maggioranza e al Governo gli strumenti per guidare il Paese senza le eterne mediazioni e la paralisi delle coalizioni fondate su leggi elettorali proporzionali) il bicameralismo paritario indifferenziato è diventato un ostacolo al governo del Paese: infatti – tanto più con il differenziarsi del voto fra giovani e meno giovani (al Senato votano 4 milioni di cittadini in meno, rispetto alla Camera) – è sempre più difficile assicurare maggioranze conformi nei due rami del Parlamento (la XVII legislatura, in corso, ne è la riprova lampante): ancor più se si decide di far ricorso a “premi” in seggi volti a garantire la selezione popolare di una (relativamente) sicura maggioranza;

– il nostro Paese solo adesso sta tentando con fatica di uscire da una crisi profonda di mancata crescita e di grande debito pubblico e ha bisogno di istituzioni più efficienti e più all’altezza delle sfide che ci pone l’economia globalizzata e le stesse difficoltà dell’Unione europea. C’è bisogno di una governabilità più rapida ed efficace;

– almeno dai primi anni Novanta sono stati i cittadini stessi a indicare la strada di riforme politico-istituzionali incisive: basti pensare alla strategia e al successo dei referendum elettorali (1990-1993 con ulteriori tentativi, falliti, successivi); ma non è stato mai possibile – di fatto – affrontare in modo coordinato legislazione elettorale e riforma costituzionale, rendendo monco e irrisolto ogni tentativo di cambiare veramente le cose; questo è tanto vero che prima si è parlato di “transizione incompiuta”, poi di “transizione infinita”, in ultimo di “transizione fallita” (secondo alcuni); che si sia rimasti in mezzo al guado negli ultimi vent’anni e particolarmente negli anni dal 2005 in avanti è evidente a tutti;

– la prima parte di questa XVII legislatura (dal 2013) ha mostrato a tutti i problemi derivanti da un sistema politico-istituzionale inadeguato e da un sistema partitico che fatica a riorganizzarsi: basti ricordare le difficoltà a far nascere il primo governo della legislatura (il Governo Letta) e la sua vita stentata; e ancor di più l’impossibilità di eleggere un nuovo presidente della Repubblica con la necessità di fare appello al presidente uscente – Giorgio Napolitano – che anche per ragioni di età aveva chiaramente detto di non considerarsi candidato (d’altra parte fino al 2013 la prassi era sempre stata di non rieleggere lo stesso presidente dopo il mandato di sette anni). Non a caso Napolitano nell’accettare aveva detto che avrebbe svolto le sue funzioni finché gli fosse stato possibile, purché le forze politiche si fossero impegnate – finalmente sul serio – nella revisione costituzionale necessaria. Per questo si può dire che questa riforma è frutto di quel solenne appello al Parlamento e dell’impulso del presidente Napolitano (poi dimessosi quando le riforme apparvero avviate sulla buona strada grazie alla determinazione del Governo Renzi e della sua maggioranza);

– infine, è stato detto e ripetuto fino alla noia: è verissimo che con le riforme istituzionali (costituzionali, elettorali, regolamentari) “non si mangia”; ma è altrettanto vero che esse sono necessario strumento da mettere a disposizione di tutti per – poi – assumere quelle decisioni che – se perseguite per il tempo e con la coerenza necessari – possono effettivamente produrre anche risorse, equa redistribuzione, servizi, e in ultimo migliore qualità della vita. Non è un caso che tutti all’unisono, all’interno come all’estero (studiosi, osservatori neutrali, società di rating, partner europei e non solo europei, etc.), considerano le riforme politico-istituzionali la necessaria precondizione di un rilancio duraturo e solido dell’Italia. Diciamolo chiaramente: non la garanzia, non la certezza, ma il presupposto senza del quale il declino del nostro Paese può al più essere rallentato, ma non invertito.

Terzo di una serie di approfondimenti. Qui si può leggere il primo, qui il secondo, qui si può leggere il testo completo.



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