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Che cosa succede in Siria nella guerra delle informazioni

assad

In Siria, i primi attivisti contro il regime di Bashar Al Assad  si organizzano solo con video su YouTube, prima che scoppi la vera e propria rivolta, creano un hashtag su Twitter (MAR15) e impostano l’immagine di una piccola protesta gandhiana, non violenta, contro il potere del Baath siriano. Il punto di non ritorno arrivò quando il governo di Damasco arresta alcuni giovani a Deraa per aver scritto sui muri alcune frasi contro Assad.

Da quel momento, la rete si gonfia di messaggi, che vengono ulteriormente amplificati dai rimandi e dai commenti, mentre le reti panarabe come Al Jazeera utilizzano quello che hanno, ovvero solo i video su YouTube “postati” dai ribelli, mentre ci sono solo due giornalisti occidentali operanti in Siria, che stanno loin des balles.

A questo punto, mentre la reazione del regime di Damasco aumenta, l’egemonia nella rivolta passa ai gruppi armati. Abbiamo qui a che fare con la disseminazione di video e di “social” dei vari gruppi armati siriani in concorrenza tra loro, per reclutare nuovi militanti e per far vedere, all’estero, chi comanda davvero nel fronte anti-Assad, senza contare i video di propaganda contro Bashar.

I video più terribili e famosi di questo periodo sono quelli del comandante dei ribelli che mangia un polmone del “nemico”, o i tanti corpi dei bambini uccisi, all’apparenza, dai gas di Assad, come ai tempi di Hama nel 1982, quando Hafez Al Assad sterminò una rivolta della Fratellanza Musulmana con i nervini. Il parallelo tra Hafez e suo figlio correrà in tutta la propaganda dei ribelli.

La “narrativa” preminente della rivolta contro il Baath di Bashar era comunque quella, da parte di tutti i gruppi della rivolta, di una rivoluzione non-violenta, filo-occidentale e soprattutto unitaria. Tre palesi mistificazioni. Il regime di Assad invece reagì, sempre sui social media, affermando che il jihad della “Primavera” siriana era finanziato dai sauditi e dal Qatar.

Era vero, certamente, ma l’effetto primario, sul web e sui vecchi media che amplificavano i video della rivolta, era quello ottenuto dai bambini uccisi dal gas di Bashar, sempre ammesso che ciò fosse vero. Come insegnavano i vecchi maestri di Diritto Penale, i testimoni oculari sono i meno affidabili. E le immagini terribili sono immediate, colpiscono la psiche profonda dei lettori e delle pubbliche opinioni occidentali, mentre il messaggio “corticale” e politico di Assad non può avere lo stesso effetto. Anche in politica estera, vince la cronaca nera.

L’obiettivo primario dei gruppi della rivolta, quindi  il coinvolgimento dell’Occidente e, in quella fase, alla fine del 2012, vennero attivati a Beirut, a Londra, a Istanbul, i Local Coordinating Committees che facevano lobbying sui rispettivi governi e in particolare nella immensa “piazza araba”,  al fine di accelerare l’intervento. Un altro modulo simile a quello della rivolta libica contro Gheddafi lo ritroviamo, in Siria,  in un fatto specifico, ovvero che in quel periodo fu allertato  l”Osservatorio Siriano per i Diritti dell’Uomo”, con sede a Londra, da sempre vicino ai ribelli e finanziato dai sauditi. Venne inoltre creata allora la Sham News Network, che distribuiva video, notizie, dati, manipolati secondo la nostra tabella descritta all’inizio, alla stampa ufficiale. E quella, è bene notarlo,  era la sola fonte dei quotidiani e delle tv occidentali (Al Jazeera e Al Arabiya comprese) che facevano opinione e condizionavano governi che, all’epoca, non avevano fonti autonome sul territorio siriano. E, fatto, non secondario, legittimavano con la loro autorità informativa i messaggi dei ribelli.

La rete dei “cittadini giornalisti”, normalmente membri non militari dell’opposizione a Bashar, fece il resto. Fu a quel punto che entrò in azione, a favore del governo, la Syrian Electronic Army, che iniziò a lanciare attacchi DDOS e hackeraggi contro i siti e i social dell’opposizione. Ma era troppo tardi, e la visione veicolata dall’opposizione al Baath si era già coagulata nelle menti dei media e delle pubbliche opinioni occidentali. Anche in questo caso, bisogna stare attenti a quelli che Pareto chiamava “residui”. Chi colpisce prima, in psicologia come in guerra, colpisce due volte.

Infine, prima che i primissimi giornalisti occidentali arrivassero sul territorio siriano, si creò una rete di “autenticazione” del messaggio dei ribelli, una rete che era gestita da alcuni affermati giornalisti arabi, che fecero da testimonial, come si dice nel linguaggio pubblicitario, per i video raccolti e manipolati dai ribelli siriani.

Twitter, un canale privilegiato per la Information Operation sia dei ribelli che del regime, era in gran parte in arabo, e quasi tutti gli operatori occidentali non conoscevano la lingua del Corano e comunicavano su Twitter  in inglese, ma le due aree non si sovrapposero mai, creando un ulteriore strumento di manipolazione.

La twittersfera anglofona parlava di Obama, o di Nato, mentre quella arabofona parlava di situazioni sul terreno, e amplificava le operazioni dei ribelli.

Quindi, per capire oggi le guerre in Medio Oriente occorre possedere una conoscenza delle tecniche attuali di deception, inganno, che volano sulla rete e sui social media, e che utilizzano, in gran parte, le tradizionali metodologie della pubblicità, del marketing e della psicologia applicata.

Il futuro sarà delle “psicoguerre” e delle infowars, che genereranno effetti molto più terribili e feroci, sul campo, delle guerre tradizionali. Le Information Operations sono ubique e preparano il campo alle azioni sul terreno.  Le guerre del futuro saranno Long Wars che saranno combattute tra centrali informative, mentre, sul campo di battaglia, l’autodisarmo occidentale creerà le condizioni per una equalizzazione delle forze in lotta.

 


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