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Tre motivi per cui Parisi non farà la fine di Bertolaso

Roma non è l’Italia, dicono in tanti. Ma scendendo nel merito di direttrici, marce di avvicinamento al primo step e tratturi da trasformare in autostrade, ecco che la parabola di Stefano Parisi nel campo dei cosiddetti Lib-Pop ha tutte le premesse per essere sostanzialmente diversa da quella di Guido Bertolaso in occasione delle amministrative romane, quando fu lanciato come un federatore e finì invece per essere la prima pietra di una slavina caduta sull’intera area che va dal centro alle destre.

In primis l’esigenza di costruire, anche in Italia, un’area liberal-repubblicana dignitosa e strutturata, così come avviene negli altri paesi. Che sia capace, al di là di leader e contingenze, di elaborare una prospettiva, organica e duratura, per quei cittadini che credono nell’alternanza di governo e che abbia nelle sue corde il macro tema della formazione. Piazza del Gesù e Botteghe Oscure sono state nella storia della politica italiana due formidabili esempi di scuole, con ovvie differenze circa percorsi e strategie. Un passaggio che è clamorosamente mancato nel campo del cosiddetto centrodestra, nonostante spunti e sbocchi analitici non manchino, come dimostra l’apporto tematico ad esempio dell’Istituto Bruno Leoni. E’però mancata la capacità di aggregare la figura del daskalos a quella dell’alunno, con il risultato che se nel Pd la cosiddetta “cantera” ha prodotto una serie di esponenti 45enni dell’attuale classe dirigente (Andrea Orlando, Maurizio Martina, Marco Meloni, Simona Bonafè) nel centrodestra no, tranne pochissime eccezioni. Il background di Parisi potrebbe essergli utile per aprire le porte ad un rinnovamento che passi innanzitutto dalla selezione qualitativa della classe dirigente, una fase che le imprese private dedite al business (e non ai poltronifici) conoscono molto bene.

In secondo luogo la possibilità di sbloccare risorse e denari (per progetti che portino occupazione e quindi profitti) con una sventagliata di riforme, coraggiose e decisive. Per cui no alla logica da “partita di giro”, come proroghe o mini interventi che incidono sul breve-medio periodo, ma vere e proprie svolte per immaginare l’Italia del 2030. Il riferimento è ad una seria e ragionata riforma della giustizia che abbatta i tempi nel campo civile, amministrativo e nelle cause di lavoro. Un passaggio decisivo se si intende giocare la carta degli investimenti stranieri, che invece ad oggi fuggono a gambe levate dall’Italia per i tempi biblici della giustizia italiana. Non un capriccio o la voglia di arrivare ad uno scontro ideologico tra fazioni, tutt’altro: la volontà di armonizzare e modernizzare la pachidermica macchina della giustizia biancarossaeverde con il contributo di tutti, tecnici ed addetti ai lavori. Ma con l’obiettivo imprescindibile di arrivare senza se e senza ma ad un radicale cambiamento che porti un plus al paese. Capitolo privatizzazioni: la cessione delle utilities non deve servire solo a fare cassa in vista di una legge di stabilità con l’acqua alla gola, ma deve essere parte di un arioso progetto di concorrenza e di offerta che porti miglioramenti alla collettività senza svendere asset strategici.

In terzo luogo il grande tema delle tasse e della spesa pubblica. Uno dei principali foraggiatori del buco nero – anzi nerissimo – nei conti italiani si ritrova alla voce regioni e non per i trasferimenti di fondi per cantieri e lavori pubblici, investimenti o formazione: ma per le spese legate alla sanità e ai costi burocratici. Lo slogan che una prestazione non ha lo stesso costo a Reggio Calabria e a Verona merita però, dopo la certificazione, anche un’azione decisa e che vada a rompere il cerchio di interessi che stanno continuando a zavorrare le casse dello Stato, tramite appunto il clientelismo regionale. Si tratta di un altro passaggio che sottrae risorse per infrastrutture, formazione, università e modernizzazione in chiave competitiva per gettare soldi in un pozzo senza fondo.

Inoltre occorrerà legare il tema della riduzione delle tasse (costo del lavoro, partite iva e imprese) a progetti che vadano al di là dei finanziamenti a pioggia per mille start-up di cui nessuno conosce il destino 12 mesi dopo. Ma armonizzare fiches e cavalli su cui puntare quei talenti. Lo spreco rappresenta in sé un doppio danno: si perde una risorsa e non la si investe su chi invece potrebbe raddoppiare quell’investimento iniziale.

twitter@FDepalo



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