Grazie a Peter Gomez, sul Fatto Quotidiano, ho potuto identificare il sacerdote ligure che, mandando in brodo di giuggiole il solito Matteo Salvini, propose già al primo annuncio dei crolli che le tende ancora in allestimento nei territori terremotati del Centro Italia fossero destinate agli immigrati che dimorano negli alberghi, dove invece avrebbero dovuto essere mandati gli sfollati rimasti senza casa per il sisma. Si chiama Cesare Donati. Ed è parroco – ahimè – di Boissano, in provincia di Savona: un Comune di 2492 abitanti che non deve essere distante da San Giovanni di Stella, dove nacque Sandro Pertini e riposano le sue ceneri.
Ahimè, visto che un parroco così mi terrebbe lontanissimo della sua chiesa. Cambierei residenza non foss’altro per non sentirne le messe, di cui immagino le omelie.
Pertini, che pure non era un credente, avrebbe tirato giù dal letto con una delle sue telefonate dal Quirinale il vescovo della sua Savona per chiedergliene conto, senza starsi lì a porre il problema di quante norme, e di quale tipo, stesse violando con la richiesta di rimuovere l’incauto.
Come faccia non dico un prete ma un uomo ad avere una simile concezione della solidarietà e della opportunità, nel bel mezzo di una tragedia come quella di un terremoto, Dio solo può saperlo.
Persino nella Lega gli applausi di Salvini a questo curioso parroco hanno creato qualche problema, come gli attacchi al presidente della Repubblica Sergio Mattarella quale “complice di scafisti e sfruttatori” per avere parlato all’annuale raduno di Comunione e Liberazione, a Rimini, di “accoglienza”, anziché di espulsione, per chi approda sulle nostre coste fuggendo da guerre e da fame, magari attratto dall’immagine purtroppo sempre più sbagliata di un’Europa felix.
Spiace che quel parroco abbia trovato qualche ascolto anche in Vittorio Feltri. Che forse per qualche pugno di copie in più per il suo Libero, come ha onestamente confessato anche di recente di aver fatto con il suo Indipendente negli anni di Mani pulite, prendendo per oro colato quello che gli raccontava a tavola l’allora sostituto procuratore Antonio Di Pietro su Tangentopoli e dintorni, abbia commentato la situazione degli sfollati del Centro Italia per il terremoto scrivendo che “l’accoglienza e la solidarietà sono solo per individui d’importazione”. Parole forse ad effetto ma più da campagna elettorale di musica leghista che da ragionamento. A meno che Feltri non voglia solo che si finisca di dargli del renziano: cosa rimproveratagli nel momento della ruvida successione a Maurizio Belpietro e che lo manda solitamente in bestia.
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Pure sul povero Vasco Errani, a lungo presidente della Regione Emilia-Romagna, i vertici leghisti sono riusciti a dividersi quando è comparsa la notizia della sua probabile e imminente nomina a commissario straordinario per la ricostruzione nelle zone terremotate, probabilmente affiancato sul piano tecnico dal notissimo architetto e senatore a vita Renzo Piano. Col quale Renzi ha voluto consultarsi andando a trovarlo nello studio genovese.
Errani, dimessosi dalla guida della sua regione nel 2014 per una sentenza d’appello per falso ideologico cancellata dalla Cassazione e trasformatasi nei mesi scorsi in assoluzione definitiva con una nuovo verdetto di secondo grado, sarebbe come commissario straordinario per la ricostruzione una rovina in aggiunta a quelle provocate dal sisma, secondo il segretario del Carroccio Salvini. Che gli addebita la responsabilità anche dei successori per i ritardi, veri o presunti, nella ricostruzione delle zone della sua regione colpite dal terremoto nel 2012. Sarebbe invece una scelta eccellente per Roberto Maroni, che da governatore della Lombardia ha evidentemente avuto occasione di conoscere Errani meglio di Salvini.
Ma prima di parlare e di emettere giudizi così diversi, destinati più a confondere che ad orientare i loro elettori, mi chiedo se i due esponenti ormai più di punta del movimento leghista non facciano meglio a consultarsi fra di loro. E decidere magari chi dei due, di volta in volta, faccia meglio a tacere.
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Non potevano naturalmente mancare i tentativi di dare una lettura politica anche al terremoto di questo sfortunato 2016, spero stavolta più appropriata e vera delle rappresentazioni di precedenti terremoti fatte da pur grandi firme del giornalismo italiano, a corto però di memoria o di conoscenza delle vicende istituzionali dell’Italia: al punto da attribuire la prima caduta politica di Aldo Moro nel 1968 al terremoto del Belice, o la politica di solidarietà nazionale avviata da Giulio Andreotti ed Enrico Berlinguer nel 1976 al terremoto successivo in Friuli, o la fine di quella solidarietà e la caduta del governo di Arnaldo Forlani al terremoto dell’Irpinia del 1980, nonostante Forlani fosse caduto l’anno successivo per la P2 e non avesse mai avuto l’appoggio del Pci, e via pasticciando con fatti e uomini. Che pena!
Ora, il buon Goffredo Buccini sul Corriere della Sera ha visto nascere dalle macerie del sisma in Centro Italia una nuova e forse salvifica stella, diciamo così, della politica italiana, capace di riconciliare i cittadini con le istituzioni. “Al margine dolente di un funerale solenne – ha scritto Buccini facendo anche rima – è nato un idillio tra gli italiani e il loro presidente” Sergio Mattarella: uomo “silenzioso, magari, ma di un silenzio che può fare impazzire l’eterna palude romana perché parla al cuore dell’Italia”. Un “nonno dolente tra i nonni, sobrio, asciutto eppure caldo e accogliente, come se avere sofferto nella vita”, per l’uccisione mafiosa del fratello Piersanti, allora governatore della Sicilia, “lo mettesse in immediata sintonia con la sofferenza altrui”.
Per quel che so di Mattarella come frequentatore della Camera quando lui svolgeva diligentemente il suo incarico di deputato e altro ancora, temo – per Buccini – che queste parole gli abbiano procurato più disagio che compiacimento. La vanità è una cosa che decisamente non gli appartiene, anche se gliela dovesse rimproverare qualche ipercritico che non ha voluto votarlo per il Quirinale.