Il Manifesto di Ventotene, scritto da Altiero Spinelli e (in piccola parte) da Ernesto Rossi, si fonda su un doppio assunto: che la crisi della civiltà europea, così come si era manifestata fra lo scoppio della prima e la seconda guerra mondiale, abbia avuto origine in un’involuzione necessaria e irreversibile dello Stato nazione; che nel futuro postbellico, pertanto, la libertà sarebbe stata riconquistata solo mettendo in piedi nuove forme post-statuali di organizzazione politica. La proposta degli “Stati Uniti di Europa” era perciò formulata in quest’ottica. E in più, come si evince da alcuni passi, era da considerarsi un mero ponte di passaggio verso equilibri, diciamo così, ancora più “avanzati”, per quanto ancora molto futuribili. L’ideale a cui tendere era quello, direi alquanto inquietante, di uno Stato unico mondiale.
Quella che animava gli estensori era però, senza dubbio, una visione cosmopolitica di matrice illuministica. Proprio per questo, essa però era fondata su un’astrazione: l’individuo razionale spogliato di ogni suo carattere identitario, vale a dire di tutte caratteristiche o abitudini specifiche sedimentatasi attraverso la storia e le esperienze vissute. Non è un caso che Ursula Hirschman, la compagna prima di Eugenio Colorni (che firmò la prefazione del testo quando fu stampato) e poi di Spinelli, intitolò la sua autobiografia, molti anni dopo, Noi senza patria. In questa prospettiva, la Ragione è per principio universale e necessaria, comune a tutti gli uomini, i quali non hanno che da attivarla mettendo da parte pregiudizi e superstizioni. Si tratta ovviamente, anche in questo caso, di una ideologia, anche se il razionalista difficilmente lo ammetterà, fermandosi il suo spirito critico ai contenuti della ragione e non arrivando ad investire le sue stesse modalità di funzionamento. Senza considerare il fatto che una vita tendenzialmente omogenea come sarebbe quella improntata a un mero razionalismo sarebbe tendenzialmente povera e, tutto sommato, poco degna di essere vissuta.
Quello che però qui preme sottolineare è la messa in scacco, da parte degli estensori del Manifesto, del nesso Stato/libertà. Un elemento che, paradossalmente, li avvicina ai fautori delle utopie anarchiche o iperliberali (ma in verità anche i marxisti, per molti aspetti iperstatalisti, pensano il comunismo come un finale “regno della libertà” ove i cittadini non hanno più bisogno dello Stato, essendosi la politica ridotta a pura amministrazione di quello che è “oggettivamente” riconosciuto come il bene comune). Quello che però noi dobbiamo chiederci, oggi più che mai, è se lo Stato nazionale è assolutamente il “male assoluto”, avendo fra l’altro inscritto nel suo DNA la degenerazione che mette capo al nazionalismo e all’imperialismo; oppure se esista, per il liberale, uno Stato “cattivo” e uno Stato, se non proprio “buono”, certo indispensabile, almeno in questa fase storica.
Credo che i Padri del liberalismo, diciamo da Smith fino a Hayek, su questo punto siano chiari: lo Stato, correttamente inteso, è indispensabile: un “male necessario”, come dice Popper, e quindi a suo modo un bene. È nella sua cornice, cioè quelle delle regole formali che lo definiscono, che è potuta infatti sorgere la “libertà dei moderni”. La libertà, da un determinato punto di vista, è un vano conato se non c’è una forza legittima che la tuteli e garantisca, che cioè garantisca i diritti individuali di ognuno mettendo l’uso della “forza legittima” a difesa di essi.
Tutto vero, ma con due importanti postille. La prima è che lo Stato nazionale garante delle libertà è un prodotto nato nella storia, quindi destinato a perire: nulla vieta di immaginare un futuro, forse già iniziato, in cui la libertà sia garantita da altre e diverse forme politiche. Oppure da un sistema misto di forme politiche nazionali e transnazionali in equilibrio fra loro, come è forse già adesso (non a caso si parla di crisi degli Stati sovrani). La seconda importante considerazione da fare è poi che lo Stato è sempre sul punto di mostrare il suo “lato “cattivo”, che, senza perifrasi, possiamo chiamare “statalismo”. Una degenerazione, sempre possibile, che un liberale non può non combattere con tutte le sue forze. Non a caso i classici del liberalismo parlano si dello Stato come un “male necessario”, ma auspicano altresì uno “Stato minimo”: uno Stato le cui funzioni siano ridotte a poche ed essenziali, solo e unicamente a garanzia delle libertà individuali (e non dei gruppi come vorrebbe la moderna ideologia del “politicamente corretto”). Hayek ha espresso perfettamente questo concetto dicendo che l’attività legislativa dello Stato deve essere tendenzialmente formale e non contenutistica: deve stabilire e far rispettare le regole del gioco democratico, che devono valere per tutti (erga omnes). ed evitare accuratamente ogni tipo di legislazione positiva in favore degli interessi particolari o di una presunte etica generale (che non può che presentarsi come arcigna “etica di Stato”).
In sostanza, per ritornare al Manifesto di Ventotene, a me sembra che gli estensori abbiano gettato la parte “buona” dell’idea di Stato, giudicandolo affrettatamente una forma politica superata, e ne hanno conservato invece quella “cattiva”, delineando una futura Europa iperstatalista che non è poi molto lontana da certi caratteri che ha oggi assunto l’Unione Europea. E per questo, io credo, che l’interesse di quel testo possa oggi essere solo storico.