Formiche.net ha preso l’iniziativa di incoraggiare i suoi collaboratori a fare “outing” ed a indicare come e perché voteranno al referendum. Tenterò di spiegare le ragioni del mio “no” nel modo più chiaro e più sintetico possibile.
Una precisazione iniziale. Non credo che il combinato disposto della legge elettorale e della proposta riforma della Costituzione, pur esprimendo una vocazione autoritaria, possano incidere sulla democrazia matura dell’Italia. Se, come ipotizzabile, un partito con il 25% dei voti avrà il 51% dei saggi, da un lato, sarà lacerato da divisioni interne (come avviene oggi con il Pd) e, da un altro, avrà a che fare con l’opposizione della società civile. Riuscirà a sopravvivere barcamenandosi ma non ad realizzare quelle profonde riforme economiche di cui ha bisogno l’Italia. Tali riforme richiedono convergenza politica, prima che marchingegni elettorali, e forti e radicate maggioranze. Non per nulla, le grandi coalizioni della Germania sono quelle che hanno trasformato il “grande malato” dell’Europa degli Anni Novanta sul vero motore del Vecchio Continente.
Il mio “no” ha tre motivazioni di fondo: a) la scarsa chiarezza degli obiettivi; b) la inconsueta procedura che ha portato al testo; c) la confusione dell’articolato.
Non è chiaro se si vuole accelerare il processo legislativo o ridurre i costi della politica. Accelerare il processo legislativo non è obiettivo saggio in un Paese con 150.000 leggi; sarebbe preferibile una politica legislativa basata su testi unici, prima di imbarcarsi in nuove norme. I testi unici rendono auspicabile il bicameralismo al fine di evitare errori, quali i circa 180 trovati nel recente nuovo codice per gli appalti. Ciò è compatibile con una riduzione di costi; per un Paese delle dimensioni dell’Italia 100 senatori e 200 deputati sono più che sufficienti, sempre che si impegnino effettivamente nei compiti a cui sono stati eletti ed abbiano, o sviluppino, le competenze professionali per farlo. Una modifica dei regolamenti parlamentari può coniugare rigore e velocità.
Una riforma complessiva, come quella proposta, richiede un’assemblea di un centinaio di costituenti eletta in modo proporzionale con un mandato breve (non più di due anni) per produrre un testo ampiamente condiviso dalle forze politiche e sociali e dalla società civile. Altrimenti si produce un testo divisivo come l’attuale che, pur fingendo di non cambiare la forma di governo, scivola dalla democrazia parlamentare al Cancellierato, e riduce la funzione degli organi di garanzia, eletti di un’Assemblea in gran misura nominata da segretari di partiti (per i quali in oltre 70 anni non si è mai trovato il modo di regolare il funzionamento, come richiesto dalla Costituzione, con una misura legislativa).
Numerose parti del testo non solo non sono condivisibile (quali il proposto assetto del nuovo Senato) o causeranno vertenze annose presso la Corte Costituzionale (le complesse materie i cui vengono affidate competenze ad un Senato che si riunirà una volta la settimana e che in molti casi cozzano con funzioni affidate alle Regioni).
Il Presidente del Consiglio, nella convinzione di essere già un Cancelliere destinato a governato l’Italia per dieci anni, ha personalizzato il referendum ed i suoi portavoce fanno balenare forte instabilità politica (con conseguenti ricadute finanziarie ed economiche) in caso di vittoria nel “no”. Credo che i mercati abbiano già metabolizzato il probabile successo del “no”. L’instabilità politica e finanziaria ci sarà se vincerà il “sì” di misura perché il Paese apparirà a tutti profondamente diviso sulla sua Carta Fondamentale. Ciò potrà innescare un lungo periodo di caos.