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Beppe Grillo a Nettuno ha compiuto una svolta o una burla?

La storia, si fa per dire, della nostra Italia degli ultimi 72 anni si arricchisce di una “svolta” intitolata alla città in cui sarebbe avvenuta con decisioni o discorsi dei leader politici di turno. Dopo Palmiro Togliatti, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, in ordine –come vedremo- rigorosamente cronologico, è toccato a Beppe Grillo.

La svolta di Togliatti risale all’aprile del 1944 e porta il nome di Salerno. Quella di Aldo Moro risale al 18 novembre 1977, quattro mesi prima del suo tragico sequestro, e porta il nome di Benevento. Quella di Enrico Berlinguer risale al 28 novembre 1980 e riporta il nome di Salerno, come quella di Togliatti. La svolta di Beppe Grillo porta la data del 7 settembre di quest’anno e porta il nome di Nettuno.

Forse non sono state tutte delle vere e proprie svolte – vedremo anche questo – ma così sono apparse alla maggior parte degli osservatori e sono entrate appunto nella storia del Paese, o nella cronaca nel caso di Grillo, essendo trascorso troppo poco tempo – questione di ore, mentre scrivo – per scomodare la storia, per quanto con la minuscola.

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La svolta salernitana di Togliatti fu quella con la quale il leader comunista, appena rientrato in Italia da Mosca quando la guerra non era ancora terminata e una parte del territorio nazionale era occupata dai nazifascisti, annunciò quel che aveva concordato con Stalin prima di partire dall’Unione Sovietica, dove aveva svolto a lungo compiti di direzione del movimento comunista internazionale.

I comunisti italiani, anche a costo di far storcere il naso ad una parte della sinistra socialista, accantonando i loro progetti rivoluzionari si predisposero ai governi di unità nazionale lasciando il Re Vittorio Emanuele III al suo posto, in attesa della fine della guerra, della liberazione di tutta l’Italia e di un referendum per scegliere fra la Monarchia e la Repubblica, con tanto di nuova Costituzione, naturalmente.

Fra i comunisti, specie quelli impegnati al Nord nella lotta di resistenza agli occupanti nazifascisti, la convinzione fu che Togliatti e Stalin avessero non rinunciato davvero ma rinviato i progetti rivoluzionari. Una convinzione che portò molti di loro, una volta finita davvero la guerra, non a consegnare le armi, come fu ordinato, ma a trattenerle, nascondendole, per aspettare il momento giusto per usarle, questa volta contro quanti avevano combattuto con loro per la liberazione ma avevano il torto di non essere comunisti.

Qualcosa di quegli armamenti sarebbe stato usato dopo più di trent’anni dalle brigate rosse, decise a fare la rivoluzione mancata o negata con la svolta di Salerno del 1944.

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Proprio le brigate rosse seminavano l’Italia di morti e di terrore quando l’allora presidente della Dc Aldo Moro, destinato a diventarne la vittima più celebre, pronunciò a Benevento un discorso interpretato da molti – a mio avviso, a torto – come la premessa di un governo con i comunisti: il famoso compromesso storico proposto dal segretario del Pci Enrico Berlinguer.

In realtà, l’11 novembre 1977, quando già da quasi un anno e mezzo una compagine ministeriale tutta democristiana e presieduta da Giulio Andreotti governava grazie all’astensione o alla “non sfiducia” del Pci nelle aule parlamentari, Moro si limitò a difendere quella maggioranza transitoria, imposta dai risultati di elezioni anticipate da cui né i democristiani né i comunisti, elettoralmente “alternativi”, come lo stesso Moro aveva detto in campagna elettorale, non avevano ottenuto i voti necessari per fare un governo gli uni contro gli altri.

Quando Moro parlò a Benevento, nel Teatro Massimo, il Pci era già insofferente per l’astensione e premeva per contare di più, mettendo magari nel governo qualche indipendente di sinistra eletto nelle liste della falce e martello e concordando un voto di fiducia vero e proprio. Moro per tenere a bada i comunisti, non per incoraggiarli a chiedere di più, disse testualmente. “Quello che voi siete noi abbiamo contribuito a farvi essere, e quelli che noi siamo voi avete aiutato a farci essere”. Mi sembrò personalmente, forse sbagliando, più un’epigrafe che una svolta.

A conferma della mia impressione, conoscendo modestamente Moro più di altri che ritenevano d’interpretarlo meglio, nella crisi di governo che Berlinguer promosse dopo qualche settimana il presidente della Dc condusse le trattative per il suo partito lasciando il governo com’era, e limitandosi a concordare con i comunisti un programma che consentisse loro di passare dall’astensione al voto di fiducia. Fu l’ultima operazione politica compiuta e firmata da Moro prima della morte.

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La svolta di Enrico Berlinguer a Salerno, cinque giorni dopo il terremoto che aveva sconvolto l’Irpinia nel 1980, si consumò in una conferenza stampa in cui il segretario del Pci, rispondendo ad alcune domande, in particolare a quelle di Giovanni Russo per il Corriere della Sera e di Valentino Parlato per Il Manifesto, escluse che i democristiani avessero potuto guidare un governo di cui facessero parte i comunisti all’insegna dell’alternativa di sinistra, e non più del “compromesso storico”.

Ma già da più di un anno i comunisti erano volontariamente tornati all’opposizione. E la Dc aveva formato senza il loro appoggio ben tre governi: due presieduti da Francesco Cossiga e uno da Arnaldo Forlani. La svolta insomma c’era già stata.

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La svolta appena compiuta da Grillo in piazza a Nettuno consiste, con il contorno delle scuse e probabilmente anche della fine della candidatura di Luigi Di Maio addirittura a Palazzo Chigi, nella conferma della fiducia alla sindaca di Roma Virginia Raggi. Che contemporaneamente, spostando il partito a 5 Stelle dal giustizialismo al garantismo, annunciava in un monologo televisivo, avendo forse paura di un contraddittorio, che l’assessora all’ambiente Paola Muraro, benché indagata, e ricorsa a giri di parole per nascondere la sua posizione, rimane al suo posto. Vi rimane perché – ha spiegato la Raggi finalmente da avvocato com’è – “saranno i pubblici ministeri a decidere se c’è un’ipotesi di reato o si va verso una richiesta d’archiviazione, non i partiti o qualche giornale”. Non i partiti, quindi, neppure il suo, come pretendevano sino a un minuto prima i direttorii di vario livello.

Non resta ora che vedere se alle parole seguiranno davvero i fatti. In questo caso sarà svolta vera. Sennò sarà una burla, del repertorio di un comico. Che dovrebbe intanto ringraziarmi per averlo promosso a un paragone con Togliatti, Moro e Berlinguer.


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