A 80 anni compiuti, e con gli avversari dei tempi migliori che ne rimpiangono la forza, non avendo forse immaginato con chi avrebbero poi dovuto scontrarsi e a volte persino tacere, si può pure perdonare a Silvio Berlusconi il vanto espresso al direttore di uno dei giornali di famiglia di “non avere mai sbagliato un colpo”. Nè da imprenditore – si deve presumere – né da politico. Ma le cose non stanno chiaramente così. Di errori ne commettono tutti gli umani, ai quali anche lui appartiene. Almeno sino a prova contraria.
Egli stesso, del resto, si è contraddetto dichiarando di sentirsi “solo” per i troppi tradimenti subiti. Il che significa che gli è capitato quanto meno di sbagliare amici, e in politica alleati, ai quali ha infatti attribuito sempre la colpa di averlo trattenuto, impedendogli di governare come lui avrebbe voluto. E come avrebbe potuto se gli italiani avessero avuto il giudizio di conferirgli la maggioranza assoluta dei voti e dei seggi parlamentari da solo. Lo ha detto molte volte in televisione sorridendo, ma non troppo.
A sua discolpa Berlusconi può solo ripetere quello che i generali dicono quando sono in difficoltà, che debbono cioè combattere con le truppe di cui dispongono. Truppe però che nel suo caso non furono ereditate, ma furono scelte da lui stesso a cavallo fra i lontani 1993 e 1994, escludendone altre di cui diffidava troppo: quelle, per esempio, della Dc allora guidata da Mino Martinazzoli. Che aveva peraltro come candidato alla presidenza del Consiglio Mario Segni, Mariotto per gli amici, sponsorizzato pubblicamente dal giornale della stessa famiglia Berlusconi, allora diretto ancora da Indro Montanelli. Cui forse fu editorialmente fatale proprio quella sponsorizzazione, con la quale il giornalista più famoso d’Italia si illuse di sventare lo scenario che temeva di più: quello del suo editore “salito” alla politica con tanto entusiasmo e impegno da candidarsi alla guida del governo, assemblando partiti e partitini disposti a sostenerlo, anche a costo di farli correre alle elezioni in carrozze separate. L’ancora Movimento Sociale di Gianfranco Fini, per esempio, fu il suo alleato nel centro-sud e al nord invece Umberto Bossi, che di Fini diceva peste e corna, sino a minacciare di scovare “i fascisti casa per casa”.
Invitato ad esprimere un’opinione quando ancora lavoravo con lui, io glielo sconsigliai. Ma, per quanto richiesto, il consiglio non fu gradito.
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Va detto, tuttavia, con tutta onestà che le condizioni in cui Berlusconi maturò le sue scelte erano molto particolari. I tradizionali partiti di governo erano stati sostanzialmente decapitati con le lame giudiziarie, a cominciare dal Psi di Bettino Craxi. Fra le cui colpe gli avversari annoveravano quella di avere aiutato Berlusconi in modo decisivo a rompere il monopolio pubblico della Rai-Tv e ad offrire al pubblico l’alternativa della Tv commerciale. Il sogno dei nemici di Craxi era di vedere trascinato con lui nella disgrazia anche il Cavaliere di Arcore e le sue aziende. Delle quali l’allora potente segretario del Pds-ex Pci Massimo D’Alema scoprì e riconobbe pubblicamente l’appartenenza al “patrimonio del Paese”, visitandone gli studi televisivi durante la campagna elettorale del 1996, solo dopo che Berlusconi era entrato in politica e vinto nel 1994 le elezioni contro la “gioiosa macchina da guerra” allestita dal predecessore dello stesso D’Alema, il compagno Achille Occhetto.
Mi faceva francamente ridere la buonanima di Enzo Biagi, peraltro abituale ospite del palco di Fedele Confalonieri nei concerti al Teatro della Scala di Milano, quando scriveva e diceva, scandalizzato, che Berlusconi era entrato in politica per salvare le sue aziende, e quindi –secondo lui- in plateale, irrimediabile “conflitto d’interesse”.
Ricordo bene, negli anni per niente epici dell’inchiesta giudiziaria Mani pulite, le visite frequenti delle guardie di Finanza, in veste di Polizia giudiziaria, nella sede della Fininvest, dove io lavoravo, reduce da quei tre anni di quasi servizio militare trascorsi alla direzione del Giorno, quando potevo scegliere solo fra chi mi odiava perché amico di Arnaldo Forlani e chi mi disprezzava perché amico di Bettino Craxi.
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Il terrore di Berlusconi di essere stritolato con le sue aziende nella caccia alle streghe, scatenatasi attorno o al seguito delle inchieste giudiziarie sul generalizzato fenomeno del finanziamento illegale della politica, era tale che una domenica, ospite dello stesso Berlusconi nella tribuna d’onore di San Siro, ne avvertii il disagio per un commento politico che avevo fatto il giorno prima a Parlamento in, su Rete 4.
In quel commento avevo criticato la dura reazione dell’allora capo della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli, alla pur legittima proposta fatta da Craxi di una commissione d’inchiesta parlamentare sul finanziamento dei partiti e, più in generale, della politica. Borrelli vi aveva visto un tentativo di disturbare le indagini sue e dei suoi sostituti. E io gli replicai che il Parlamento aveva potuto fare inchieste su tutto -dalle banane ai tabacchi, dalla mafia a Sindona – ma non avrebbe curiosamente potuto occuparsi del finanziamento dei partiti. Come in effetti non se ne occupò quell’anno e non se ne sarebbe occupato neppure in seguito per paura dei magistrati.
Altrettanto curiosamente alla fine di quella stagione televisiva Parlamento in scomparve dalla programmazione dell’allora Fininvest per tornarvi solo dopo qualche anno, e sempre curiosamente, quando io avevo lasciato il gruppo. Vi assicuro che non serbai per questo alcun rancore per Berlusconi, per quanto egli mi avesse sgradevolmente detto per telefono una mattina che, amici entrambi di Craxi, saremmo stati insieme “una coppia devastante”. Regola, però, che non valse per altri.
Ci rincontrammo solo alla morte di Bettino Craxi, abbracciandoci in lacrime sulla sua tomba, ad Hammamet.
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Della falsa epopea di Mani pulite naturalmente l’informazione della televisione di Berlusconi si occupò. Ma, a parte le invettive dell’indomito Vittorio Sgarbi, fu una informazione per niente critica. Uscì con la firma di un giornalista del Tg5 una delle prime biografie allo zucchero di Antonio Di Pietro, del resto invitato poi da Berlusconi a entrare nel suo primo governo. Ed era del Tg 4 di Emilio Fedele quell’indimenticato e indimenticabile cronista che faceva la guardia notte e giorno davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, disturbato solo dai tram che scorrevano alle sue spalle, per riferire delle mirabili gesta dei magistrati, degli arresti disposti ed eseguiti, e di quelli che sarebbero ancora arrivati a far felici le tante piazze affollate di gente che chiedeva a Di Pietro di farla “sognare”. Ah, che tempi. Che orribili e inutili tempi, viste le scuse che poi lo stesso Borrelli avrebbe chiesto al pubblico, fra gli elogi di Claudio Martelli, vedendo di che cosa fossero capaci i successori di quelli che lui aveva allontanato dalla politica.
Tanta comprensione o prudenza non servì molto però a Berlusconi. Che, una volta al potere, provò sulla sua pelle, e a lungo, gli inconvenienti di un certo modo di amministrare giustizia in Italia. Negare che ci sia stato contro di lui accanimento giudiziario sarebbe disonesto. Eppure contesto che siano stati i processi a rovinargli la vita politica, essendo convinto che lo stesso numero abnorme delle iniziative prese contro di lui nelle Procure lo abbiano mitridatizzato, dandone al pubblico l’immagine di una vittima, di un perseguitato. Gli hanno rovinato, al massimo, la vita privata e le tasche, a tutto vantaggio di avvocati incautamente promossi anche a parlamentari.
I rovesci politici di Berlusconi sono derivati dai suoi errori, anche se lui è convinto di non avere mai sbagliato un colpo. Errori di inesperienza qualche volta, d’intempestività altre volte. Ma non è detto che non faccia in tempo a rimediarvi, perché alla storia del suo ritiro, dietro Stefano Parisi o chiunque altro, io non credo. Quanto più lo copieranno, come ha fatto Matteo Renzi con l’esenzione delle prime case dall’Imu e la riesumazione del progetto del ponte sullo stretto di Messina, tanto più crescerà la voglia di Berlusconi di restare in campo, magari per riaccordarsi con Renzi, nonostante le attuali smentite ma come ha appena auspicato il carissimo nemico Carlo De Benedetti: “carissimo nemico” come il titolo di copertina festosamente dedicato all’ex presidente del consiglio dal settimanale debenedettiano L’Espresso.
Una prova della volontà di rimanere in campo, d’altronde, è stata appena data da Berlusconi incontrando, prima di festeggiare gli 80 anni, i vecchi alleati, sempre i soliti però, al netto di quelli che l’hanno lasciato. Un incontro nel quale, auguri a parte, gli ospiti hanno tuttavia protestato per il coordinamento della campagna referendaria contro la riforma costituzionale appena conferito all’ex presidente del Senato Renato Schifani. Che è tornato da poco a casa da Berlusconi ma dopo avere votato per tre volte in Parlamento la riforma, hanno obbiettato Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Che non ritengono il loro no referendario meno “intelligente” di quello forse affidato a Schifani, secondo l’aggettivo furbescamente coniato da Gianni Letta.