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La Chiesa, Papa Francesco e molto altro. Il libro intervista di Ratzinger

Domani esce alle stampe un libro intervista di Joseph Ratzinger con il giornalista Peter Seewald titolato ”Ultime conversazioni”. Si tratta, al pari degli altri lavori pubblicati già a quattro mani, di una importante autobiografia del Papa emerito, la quale, secondo le indiscrezioni, affronta tutti i grandi temi della sua vita: dall’infanzia sotto il regime nazista, alla scoperta della vocazione, passando poi attraverso il Concilio Vaticano II, per giungere all’amicizia e collaborazione con Giovanni Paolo II e finire agli ultimi controversi anni, dal Pontificato fino alla rinuncia, e al ritiro discreto e silenzioso nella spiritualità.

Questa quarta intervista concessa a Seewald è cruciale soprattutto per comprendere a fondo gli accadimenti di un pontificato molto controverso, passato attraverso la crisi dello Ior, lo scandalo dei preti pedofili per finire al Vatileaks; oltre ad essere un documento storico insostituibile per gettare luce sul modo personale con il quale Benedetto XVI ha vissuto le vicende che lo hanno portato ad affidare la guida della Chiesa nelle mani di Papa Francesco.

Non soltanto Ratzinger si rivela meno fragile di quanto sia apparso sui media, e anzi perfettamente consapevole del compito universale che ha ricoperto dal 2005 al 2013, ma ha confessato di essere molto piu legato affettivamente di quanto di solito si dica e pensi al suo successore.

Il potere, poi, non gli ha mai fatto paura. La rinuncia non è stata dettata dalla debolezza, ma semmai dalla consapevolezza che per le necessità della Chiesa fosse indispensabile una linea meno teologica e dottrinale e più pastorale e operativa.

Egli confessa di aver deciso il passo indietro in totale libertà e serenità e anche di non essere stato, come invece si è detto, il regista occulto dell’elezione di Bergoglio, essendo rimasto inizialmente stupito e poi ammirato dalla scelta autonoma del Conclave.

L’ottimo rapporto tra il Papa in carica e l’emerito non è, insomma, frutto di un atteggiamento politically correct, dettato cioè opportunamente dalle circostanze, ma nasconde una profonda affinità e condivisione di vedute personali tra i due, pur nella differenza di provenienza, di cultura e di stile che li contraddistingue.

Benedetto XVI si dice grato dell’ospitalità che gli è stata concessa nel monastero Mater Ecclesiae, dove ora risiede, e manifesta soddisfazione per la vitalità della Chiesa, dovuta all’origine latino-americana di Bergoglio, oltre che al suo carisma pratico estremamente popolare.

Ratzinger conferma che per risolvere problemi come quelli della presenza di una lobby gay vaticana c’è stato bisogno proprio di un carattere attivo come quello del suo successore, sebbene egli avesse già contribuito a combattere e a sciogliere il piccolo gruppo che ne rappresentava il vertice.

Oltre a difendere con fermezza il fatto che la rinuncia non si sia identificata per nulla con un fallimento, anzi proprio con la contraria verifica della funzione di servizio che hanno gli incarichi gerarchici nella Chiesa, nel libro Benedetto XVI parla infine della vecchiaia e del modo ascetico con cui ogni giorno si prepara spiritualmente alla morte.

Al di là di queste giustissime chiarificazioni, che da domani potremo leggere per esteso, alcune osservazioni teologiche ed ecclesiologiche tra i due pontificati possono essere fatte per capire meglio il significato storico di quanto stiamo vivendo.

Benedetto XVI e Francesco non si distinguono, infatti, unicamente per indole e sensibilità, ma hanno una complementare e diversa visione del ruolo e del contributo che al mondo di oggi può essere offerto dal Cristianesimo. Ribadisco: complementare, perché non si tratta di un’alternativa; ma anche differente, perché altrimenti non si giustificherebbe il cambiamento di marcia assunto dal nuovo magistero.

Sicuramente un primo fattore è biografico, ma la cosa non si ferma lì. Pensare in modo eurocentrico è effetto di una concezione molto romana e istituzionale per cui Ratzinger si è battuto, mentre partire dalle periferie significa, per l’appunto, concepire la cristianità guardando all’espansione dei confini, sicuramente luogo nel quale, anche demograficamente, si gioca oggi la partita piu importante.
Anche a prescindere, inoltre, dalla dualità istituzione-unità dottrinale, da un lato, e popolo in espansione, dall’altro, vi sono poi due modi profondamente diversi di intendere la sostanza del rapporto tra Chiesa Cattolica e mondo moderno.

Per comprendere questo delicato passaggio essenziale può essere utile riflettere sulla diversa interpretazione che nell’uno e nell’altro assume la coppia “chiuso e aperto”, molto utilizzata difatti da entrambi.
In un bellissimo libro giovanile del 1960, titolato ”La fraternità cristiana”, il futuro Benedetto XVI spiegava come il concetto di comunità riceva con la Chiesa un cambiamento di prospettiva rispetto all’idea “chiusa” che assume in un contesto non cristiano o nel Vecchio Testamento. La Chiesa nasce come nuovo popolo di Dio che scardina gli antichi confini etnici e culturali. Tuttavia, osserva Ratzinger, rispetto all’Illuminismo e soprattutto al Marxismo, che optano in modo liberale e autoritario per una unificazione del genere umano, la fraternità cristiana è intesa dal punto di vista cattolico come ”un nuovo confine, il confine cioè tra cristiani e non cristiani”. Certo la Chiesa è chiamata ad una testimonianza di salvezza universale ma sempre partendo da se stessa e dalla propria fede ecclesiale.

Francesco, viceversa, pur non negando questi presupposti, ha sottolineato maggiormente l’idea di una ‘Chiesa in uscita’, nella quale cioè la integrazione e la misericordia verso l’esterno hanno un primato pratico sull’identità interna della tradizione. Il 6 settembre dell’anno scorso, alla recita dell’Angelus, Francesco ha spiegato in modo cristallino che ”all’origine della nostra vita cristiana ci sono proprio quel gesto e quella parola di Gesù: Effatà! – Apriti!”. Il nemico di ogni generosità cristiana diviene così specialmente il potere e l’opulenza sfrenata.
Da un lato, quindi, l’identità è il fondamento della vocazione universale di apertura al genere umano del Cristianesimo e dall’altro, invece, ogni chiusura è sintomo sempre di egoismo e peccato da superare in modo centrifugo attraveso la fede.

Non si devono mai trascurare, pertanto, queste differenti sensibilità, sebbene sia ovviamente altrettanto importante non enfatizzarle contrapponendole nella banalità. In questo momento per la cristianità intera è impellente, in fin dei conti, tanto mostrare nel nuovo mondo l’apertura e la costitutiva visione soprannaturale della misericordia cristiana, quanto nella vecchia Europa secolarizzata la volontà di non disperdere l’imprescindibile identità culturale cristiana come fattore di coesione e di pace interna per le Nazioni.

D’altronde, Francesco ha dimostrato di aver fatto sua perfettamente questa convinzione del predecessore in molte occasioni solenni, non da ultimo nei suoi meravigliosi Discorsi al Parlamento Europeo di Strasburgo, nei quali la migliore lezione di Ratzinger si è perfettamente coniugata con la pratica pastorale amorevole e convincente della propria predilezione per i poveri e i dimenticati.

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