Poste in vendita? Sì, no, forse. C’è parecchia confusione a quanto pare nel governo sul futuro del gruppo guidato da Francesco Caio. Pensare che a maggio, archiviata la cessione della prima tranche (29,7%) partita a ottobre 2015, già si pensava a piazzare sul mercato un altro 30%, con tanto di decreto dell’esecutivo. Poi, col passare dei mesi, le perplessità di alcuni sindacati su dati personali e servizio universale e la borsa sull’ottovolante, le certezze hanno cominciato a scricchiolare. Fino a diventare dubbi, tanto da spingere il Tesoro a rinviare la privatizzazione ulteriore a tempi migliori, magari a inizio 2017. Ieri però, sembra essere stata stata scritta la parola fine sul prosieguo della privatizzazione, con il governo che ha congelato a data da destinarsi l’operazione. Eppure, come ammesso settimane fa dallo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, vendere le Poste avrebbe aiutato ad arginare il debito pubblico italiano.
SORPRESA, VENDERE POSTE NON SERVE PIU’
La sorpresa, nemmeno troppo inaspettata, è arrivata nel corso di un convegno organizzato dai parlamentari di Sinistra Italiana, peraltro già critica verso la privatizzazione tanto che ieri ha chiesto il ritiro del decreto, all’Hotel nazionale di Roma. Tra i convenuti il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli, che per sua stessa ammissione non è mai stato un fan incallito della privatizzazione. “Non ero entusiasta della prima tranche e della seconda per niente”. Poi però, affrontando il nocciolo della questione, cioè la vendita di un altro 30%, Giacomelli ha affondato il progetto: “Mi pare che sia prevalsa l’idea che non ci sia una necessità di un’operazione di questo tipo. E mi pare che sia una valutazione condivisa che Poste ha ulteriori potenzialità espansive che si specificheranno meglio nelle prossime settimane e che le condizioni di mercato non consigliano di procedere con la privatizzazione”. Dunque, “mi pare chiaramente rinviato il collocamento”, ha concluso. Fine della privatizzazione di Poste? Quello che è sicuro è che la manovra incombe e il 27 settembre il governo dovrà aggiornare il Def, depennando gli introiti (circa 2 miliardi) derivanti dalla vendita di Poste. E il debito pubblico?
RIPARTE LA CACCIA GROSSA ALLE RISORSE
Lo scorso febbraio è slittata un’altra importante cessione, quella di Ferrovie. Il Documento di economia e finanza, che traccia il perimetro della finanza pubblica, presentato la scorsa primavera fissava l’obiettivo delle privatizzazioni nello 0,5% del pil, pari a circa 8 miliardi. Peccato che finora però il risultato si limita ai circa 800 milioni ricavati dal collocamento in Borsa di Enav più i 500 andati al Tesoro sui 953 milioni ricavati dalla vendita Grandi stazioni retail (Gruppo Fs). Va da sé che all’appello manchino denari importanti, costringendo Palazzo Chigi a procacciarsi nuove risorse.
LA TEMPISTICA SECONDO IL MEF
D’altronde la conferma, seppur informale, di uno stop all’operazione Poste è arrivata anche da Fabrizio Pagani, capo della segreteria tecnica del Tesoro: “Non posso dare una data, c’è un iter parlamentare relativo al dpcm che deve essere concluso, una volta passato alle commissioni parlamentari, il dpcm deve tornare in Cdm”.
IL MONITO DEL GARANTE DELLA PRIVACY
Ma, nell’ormai remota ipotesi che il prossimo anno l’esecutivo torni sui suoi passi, ritirando fuori dal cilindro l’Ipo 2 di Poste, come cambierà la struttura del gruppo e il suo rapporto con la trasparenza? Antonello Soro, Garante della Privacy intervenuto al convegno, ha messo in guardia dai rischi derivanti da quella strategia di efficientamento di Poste, sostitutiva alla vendita del gruppo. Il governo infatti, come pare, potrebbe nel frattempo optare per un restyling approfondito del gruppo. Tuttavia “lo spostamento del trattamento dei dati nella dimensione digitale, che persegue obiettivi di maggiore efficienza, economicità e qualità dei servizi prestati, comporta nuovi e rilevanti rischi e deve essere gestita con particolare attenzione e responsabilità”. In quest’ottica Soro ha avvertito che “è necessario che imprese e pubbliche amministrazioni ripensino seriamente, investendo risorse e organizzazione, alla protezione dei dati, inserendo la sicurezza digitale tra gli asset strategici dei loro piani di sviluppo”.