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Il Corriere della Sera, la Repubblica e le divisioni tra i giornaloni sul referendum costituzionale

Mario Calabresi, Repubblica, Corriere della Sera

Come il diavolo che si nasconde nei dettagli, una vignetta di prima pagina sul Corriere della Sera nel giorno dell’annuncio della data del referendum sulla riforma costituzionale, finalmente fissata per il 4 dicembre, ha tradito la collocazione dello storico quotidiano milanese di via Solferino nel fronte del no.

La matita di Giannelli è più efficace di un editoriale del direttore Luciano Fontana, o del suo predecessore Ferruccio de Bortoli, rimosso dopo troppi scontri con Matteo Renzi e poi tornato in altra veste, o del vice direttore Antonio Polito.

Poiché è logicamente impossibile collegarla ad una vittoria del no alla riforma costituzionale, che significherebbe la sconfitta del presidente del Consiglio e le sue dimissioni, per quanto non siano più annunciate come prima per ragioni di buona educazione istituzionale suggeritegli dai presidenti emerito ed effettivo della Repubblica, non può che collegarsi ad una vittoria del sì la Roma sotto la neve disegnata da Giannelli. Una Roma di stile sovietico, d’altronde conciliabile con lo speciale tipo di democrazia che vige nel partito pentastellato che la governa in Campidoglio con la sindaca Virginia Raggi, probabilmente ancora in carica il 4 dicembre, per quanti altri errori potrà commettere o potranno rimproverarle gli webeti del suo movimento. Una Roma in cui Giannelli fa sfilare le truppe col passo dell’oca, come ai tempi di Stalin, Breznev e compagni, davanti a un palco su cui è sistemata una nomenclatura in pelliccia scura, comprensiva – a occhio e croce, per quelle labbra un po’ più marcate delle altre tre – della ministra renzianissima delle riforme e di altre cose ancora: Maria Elena Boschi.

Il punto interrogativo che accompagna la sostituzione della festa repubblicana del 2 giugno con quella del 4 dicembre appare del tutto pleonastico. Diciamo pure, retorico.

Il Corriere della Sera di conio Cairo, Urbano Cairo, editore anche della televisione la 7 e di tante altre cose che è felicemente riuscito a realizzare e acquistare dopo essersi fatto le ossa nella scuderia berlusconiana, si può ben considerare ormai il capofila elegante e autorevole della campagna referendaria del no, ben diverso per stile dal Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, dal Giornale della famiglia Berlusconi diretto da Alessandro Sallusti e dalla Verità appena portata nelle edicole da Maurizio Belpietro, rimosso dalla guida di Libero proprio perché irriducibile nella lotta a Matteo Renzi e al referendum, ormai, della sua vita.

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In compenso il presidente del Consiglio, e segretario del Pd, può ormai contare nel percorso del referendum sulla Repubblica, dove sono progressivamente caduti gli originari dubbi del fondatore Eugenio Scalfari e dell’editore Carlo De Benedetti per la prospettiva sempre più forte e scontata di una modifica dell’odiata e connessa legge elettorale della Camera nota come Italicum, sui giornali ormai ad essa collegati, come La Stampa di Torino, Il Secolo XIX di Genova, i quotidiani locali del gruppo L’Espresso, sullo stesso Espresso naturalmente, sul Messaggero, il Mattino e il Gazzettino di Francesco Gaetano Caltagirone, sui tre quotidiani del gruppo Riffeser Monti – Il Giorno, il Resto del Carlino e la Nazione – e altri giornali ancora di natura nominalmente locali ma spesso anche ben più che locali, per non parlare naturalmente di quel giornale tutto particolare che è Il Foglio fondato da Giuliano Ferrara e diretto da Claudio Cerasa. Che si è proposto con onesta trasparenza di spostare il maggior numero possibile dei suoi vecchi lettori berlusconiani dal fronte referendario del no al fronte del sì.

Non è uno schieramento mediatico da poco quello su cui può quindi contare il presidente del Consiglio. Delle televisioni non parlo perché, a parte i salotti di Cairo, su la 7, conformi allo spirito della vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera, sulle altre non mi sono fatto ancora un’idea, per quanto le opposizioni e le minoranze del Pd sbraitino nel parlare di una Rai “normalizzata” da Renzi per il sì.

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La cosa che maggiormente mi preoccupa della campagna referendaria sulla riforma costituzionale è la sua maledetta lunghezza. I settanta giorni formali appena cominciati con la scelta della data da parte del Consiglio dei Ministri, la più lontana consentita dalla procedura, e i 150 di fatto già trascorsi, perché del referendum costituzionale si parla già dalla campagna elettorale della primavera scorsa per le amministrative, sono francamente un’enormità. Che ha già obbligato e ancora più obbligherà i malintenzionati a inventarsene di tutti i colori per alzare la temperatura dello scontro.

I già tanti veleni della campagna referendaria si scaricheranno, fra l’altro, sulla preparazione e sul percorso parlamentare della cosiddetta legge di stabilità, ex finanziaria, che già è complicata dai vincoli europei e dalle tensioni in corso fra Renzi e l’asse franco-tedesco che gestisce l’Unione. Ogni spesa in più sarà usata contro il governo per accusarlo di volere “acquistare” consensi alla riforma costituzionale. E ogni spesa in meno sarà adoperata dagli altri per portare acqua al no alla riforma, anche se le due cose non c’azzeccano proprio, come direbbe Antonio Di Pietro dal Brasile, dove si trova per una missione misteriosa, vista la reticenza con la quale ne parla dopo avere comunque annunciato che al rientro voterà no a Renzi e alla riforma, vagheggiando fra leghisti e grillini.



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