Un altro player del nuovo nesso tra Ankara e Mosca è, ed è bene notarlo, l’Iran. Se Ankara, in cambio della pace con Mosca, abbandonerà le fazioni jihadiste sunnite al loro destino, Teheran sosterrà tacitamente le mire turche in Iraq e in Siria, tramite la protezione della Federazione russa.
La pace con i russi e l’accordo con l’Iran vogliono dire la futura partecipazione dei turchi alla recentissima (8 Agosto u.s) “triplice intesa” di Baku tra Iran, Russia, Azerbaigian per il nuovo corridoio economico tra India e Russia.
Ciò viene promesso ad Ankara oltre all’apertura del gasdotto Turkish Stream da 30 milioni di metri cubi e la costruzione della centrale nucleare, con tecnologia russa, ad Akkuyu, in Turchia.
Mosca deve assolutamente avere una linea energetica che eviti il passaggio in Ucraina, la Turchia non può sopravvivere senza il gas russo, che vale il 50 per cento dei suoi consumi, e la questione dei migranti, con i quali Recep Tayyip Erdogan ricatta la povera e ingenua Ue, è oggi nelle mani della Russia, che può fornire aree e vie alternative.
Erdogan ha, poi, bisogno di una nuova area di espansione, economica e geopolitica (oltre che identitaria) in Asia Centrale, a patto che non si annetta ufficialmente le comunità turcomanne, che in quella zona sono numerose ma molto frazionate.
Inoltre, Vladimir Putin può raffreddare le tensioni tra Armenia e Azerbaigian sul Nagorno-Karabakh, area azera a maggioranza armena. L’Armenia, che non parla certamente con la Turchia, ha chiesto la protezione di Mosca per il riconoscimento della sua indipendenza a livello internazionale, ma Ankara non ha ancora molti rapporti con il filo-turco Azerbaigian. Mosca non vuole far divampare la lotta tra le due popolazioni azera-turca e armena, poiché innescherebbe un probabile nuovo jihad destabilizzante per il Caucaso, mentre la Turchia ha bisogno di sedare la tensione, pur non avendo alcuna relazione con l’Armenia.
Usa e Ue, qui, sono al massimo degli ornamenti.
In Siria, Mosca sostiene gli alawiti di Bashar al-Assad, come è ben noto, ma i costi materiali e politici di questo impegno non potranno durare ancora a lungo. L’impegno di Mosca in Siria costa almeno 3-4 milioni di Usd al giorno, che dobbiamo moltiplicare per tutte le date che vanno dal 30 Settembre 2015, inizio dei raid aerei russi, a oggi. La Russia, che ha un budget militare di 50 miliardi di Usd l’anno, può certo sostenere questa spesa, ma non con una prospettiva di bassi prezzi del petrolio e il pericolo dell’accensione di un nuovo focolaio oltre quello siriano. Fra l’altro, se Mosca non riduce le spese militari del 5 per cento, come ha deciso Putin per quest’anno 2016, le prospettive di una crescita economica russa divengono più oscure. È evidente che questo costo, per Mosca, non può essere sostenuto a lungo, dato che poi il guadagno strategico reale è solo quello della protezione di Latakia e delle altre basi russe sul Mediterraneo.
Gli Usa hanno, invece, finora hanno speso, sempre in Siria, 11,5 milioni/giorno, dall’inizio dell’Operazione Inherent Resolve ad agosto 2015.
La Turchia, alleata de facto con l’Isis e gli altri gruppi del jihad siriano, non riesce ad annettersi Aleppo e le altre zone turcomanne a sud, il vero obiettivo di Ankara. Erdogan, poi, non può nulla contro i curdi sostenuti dagli Usa. Il leader turco può digerire l’amara medicina di un quasi-stato curdo se e solo se vi è l’annessione dei territori turcomanni siriani e la creazione di un cuscinetto strategico tra la Turchia e il nuovo Kurdistan, che magari Putin potrebbe garantirgli.
Vladimir Putin, nel meeting del 9 Agosto scorso con il leader turco, ha affermato, tra le righe, che Assad deve espugnare rapidamente Aleppo, condizione necessaria per poter dichiarare unilateralmente il cessate-il-fuoco e una conferenza per ridefinire i confini e le aree di influenza in Siria.
Oggi, nessuno fa la guerra in Siria pensando ad un paese unito, nemmeno gli alawiti di Bashar al-Assad.
Domani sarà pubblicata la terza parte dell’analisi; la seconda si può leggere qui