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IPhone 7, reti intelligenti e servizi stupidi

Marco Ferrazzoli

“Prestazioni e autonomia mai viste. È resistente all’acqua, ha due altoparlanti stereo e puoi sceglierlo in nuovi colori”. La promozione dell’iPhone 7 si è prevedibilmente concentrata su alcuni aspetti accessori del telefonino, come sempre accade in questo mercato: campagne commerciali, marketing, pubblicità, advertising rispondono a regole di comunicazione precise. Una di queste è la ‘gadgettizzazione’, che porta a privilegiare elementi ludici ma appealing del prodotto rispetto alle sue performance sostanziali, come per esempio accade nel mercato dell’auto, estremamente condizionato da quelli che un tempo definivamo ‘optional’: emblematico, da questo punto di vista, lo spot che mostra il proprietario con le braccia ingombre mentre apre il portellone posteriore individuando un sensore con il piede. I teaser, poi, hanno lo scopo di creare un’aspettativa preventiva all’offerta e accade così che davanti agli Apple Store troviamo le code per accaparrarsi il nuovo modello del telefonino, analogamente a quanto accaduto all’uscita dei precedenti modelli. E talvolta capita, come un tg mostrò una volta intervistando un turista italiano a New York, che in quelle code ci siano persone che non sanno di preciso cosa stiano per acquistare.

D’altronde cosa più dell’inopinato ritorno del disco in vinile dimostra che, nell’uso di uno strumento, il consumatore asseconda pulsioni emotive, quali la nostalgia, oltre che necessità concrete? Tornando ai cellulari, si pensi alla dimensione dello schermo, soggetta nel tempo a riduzioni e allargamenti finalizzati a supportare esigenze e funzioni diverse, in una sorta di riproposizione del rapporto tra organo e uso di cui si dibatte dai tempi di Jean-Baptiste Lamarck. La soggezione del consumatore a ciò che gli viene proposto è quasi sempre complementare alla scarsa consapevolezza con cui utilizza il bene tecnologico: nell’epoca dell’esplosione dell’hi fi, si discuteva di watt di potenza audio come se si fosse trattato di una competizione virile; in questi decenni abbiamo comprato automobili che ci piacevano, talvolta senza conoscerne approfonditamente costi e consumi, prestazioni e standard di sicurezza; oggi quasi tutti utilizziamo il pc come una macchina da scrivere avanzata e per le possibilità di chattare che ci offre tramite le reti e i social. È un fenomeno che si inserisce nella generale dinamica delle società avanzate per cui i beni di consumo, soddisfatti i bisogni fondamentali, si trasformano in prodotti sostanzialmente culturali: il cibo resta in tal senso l’esempio più illuminante, come chiariscono tanti studi da Claude Levy-Strauss in poi.

Il problema specifico a livello italiano è la nostra peculiare tendenza a privilegiare il possesso dei beni privati rispetto all’utilizzo dei servizi pubblici: in genere vantiamo standard alti nei primi, dal risparmio alla proprietà di case, telefonini e autovetture, e bassi nei secondi, dalla gestione dei rifiuti, all’efficienza dei trasporti, fino all’ottimizzazione delle fonti energetiche. Basti vedere i dati Eurostat elaborati dall’Ufficio studi di Confartigianato: la soddisfazione dei cittadini per i servizi pubblici locali in Europa vede l’Italia fanalino di coda con il 39%, dietro Grecia e Repubblica Slovacca (45%) e abissalmente distante dal capolista Lussemburgo con l’83%. Anche se si tratta di una percezione a macchia di leopardo con ampie divergenze, per esempio, tra Verona (58%) e Palermo (19%). Si aggiunga al danno, come beffa, che negli ultimi 5 anni costi e tariffe dei servizi sono aumentati con percentuali che vanno dal 19,2 della raccolta rifiuti al 10,9 dei trasporti stradali passeggeri, contro un indice generale dei prezzi cresciuto del 4,9%.

Ci sono eccezioni come la scuola e la sanità, che se si considerano attentamente costi e qualità funzionano abbastanza bene, e comunque meglio di come crediamo, ma proprio questi due settori ci ricordano quanto nel nostro paese ancora sia insufficiente l’infrastrutturazione tecnologica: la diffusione delle reti, la velocizzazione delle connessioni, il coordinamento di data base e data mining. Ce ne rendiamo conto ogni qualvolta dobbiamo inserire nell’ennesimo form le stesse informazioni già in possesso dell’amministrazione con cui ci relazioniamo; ma questa disorganizzazione è ben più grave laddove, per esempio, ostacola il dialogo in tempo reale tra strutture chiamate a occuparsi della salute di un paziente, oppure deputate a trovare soluzioni per problemi di particolare complessità come le migrazioni. È per queste ragioni che la cosiddetta agenda digitale dovrebbe avere un posto di primo piano nel dibattito politico, scavalcando tanti temi di polemica occasionale che invece la fanno da padroni, una disattenzione le cui responsabilità ricadono su tutti i soggetti interessati e coinvolti: istituzioni, cittadini, media.

In una recente intervista uscita su Repubblica, l’amministratore delegato di Apple – 215 miliardi di dollari di fatturato atteso per il 2016, 587 mld. di capitalizzazione in borsa, dove è la prima società al mondo, tanto per rimarcare di chi parliamo – ha spiegato come le vendite di personal computer a livello mondiale in questo momento siano intorno ai 275 milioni di unità, dato in calo, mentre il mercato mondiale degli smartphone è di 1,4 miliardi di esemplari. Nel 2011 circa il 44% del fatturato dell’azienda veniva dall’iPhone ma ora la percentuale si avvicina ai due terzi. Il core business, insomma, è nel portatile, ma poiché anche per la telefonia la saturazione del mercato è inevitabile, la strategia di Tim Cook punta sui servizi (iCloud, App Store, Apple Pay, etc.), che negli ultimi dodici mesi sono cresciuti di circa 4 miliardi di dollari.

Discorsi che convergono, per passare da un device che ormai conta decenni di storia a uno molto più recente, con quelli di un’altra intervista, rilasciata a Panorama da Henry Seydoux. Il fondatore di Parrot racconta come i droni si trovino oggi proprio al punto in cui erano gli smartphone sette anni fa: nel 2015 se ne sono venduti un milione di pezzi e l’azienda di Palm Springs ha guadagnato oltre 180 milioni di euro, il 121% in più rispetto al 2014. L’invasione di questi velivoli per ora è evidente soprattutto nelle applicazioni giocattolo, basti vedere quanto le foto e video realizzati con i droni siano in crescita esponenziale su youtube o instragram. “Mio figlio diciottenne ha piazzato il suo cellulare su un drone e lo ha usato per andare a caccia di Pokémon”, ammette lo stesso Seydoux, che però evidenzia i ben più seri impieghi commerciali di questi dispositivi tecnologico, sfruttati negli Usa soprattutto per la consegna delle merci e per la connessione a internet, in Europa per agricoltura, costruzioni, archeologia e mappatura del territorio.

Oggetto, funzione e utilizzo di un bene corrono assieme, ma la direzione la devono dare l’offerta e la domanda. Per tornare al nuovo iPhone, Luca Salvioli sull’inserto Nova del Sole-24 ore evidenzia come la storia di Apple sia “costellata di sottrazioni fatte in nome di una visione”, cosa che si ripete adesso con le cuffie senza fili: l’azienda di Cupertino dice che servono ad “aumentare lo spazio dedicato alla batteria, inserire il taptic engine per il nuovo tasto home e altri interventi per ottenere la certificazione necessaria per impermeabilità e resistenza alla polvere”. Ma, guarda caso, Apple nel 2014 ha comprato Beats, la società leader mondiale nelle cuffie bluetooth, con un’acquisizione record da 3 miliardi di dollari ed è quindi intuitivo che la sottrazione miri a concreti e cospicui ritorni in termini di affari e ricavi.

A questi fisiologici processi guidati dalle industrie, consumatori, commentatori e stakeholder dovrebbero rispondere con una riflessione adeguata. In tal senso segnaliamo una divertente recensione uscita sul Secolo XIX dell’iPhone, definito “bellissimo” prodotto “di altissima tecnologia e di grande pregio dal punto di vista del design”, insomma “perfetto”, ancorché “più o meno” equivalente all’antagonista e sfortunato Note 7, agli HTC, all’ultimo Motorola e al Sony Xperia XZ. “Ormai la differenza tra un brand e l’altro si gioca su fattori che nell’ordine si basano su: 1) fedeltà; 2) costo; 3) estetica”, commenta la giornalista Diana Letizia, ma “la realtà ci racconta altro: la poca aspettativa e la poca richiesta”. In sostanza: per quanto possano l’obsolescenza programmata, la prepotente spinta del marketing, l’ormai acquisita abolizione della distinzione tra bisogni primari e secondari, un oggetto materiale resta un oggetto e, dopo avere invaso gli scaffali dei negozi reali e digitali, le nostre case e le nostre vite, subentra un fenomeno ineluttabile di rigetto.

Nel 2016 la crescita del mercato dei “cellulari” si attesterà sull’1,6% rispetto al 10,6% del 2015. Tim Cook è stato il più lungimirante nel capire che il futuro è nelle App, cioè nei servizi, nelle funzioni, dopo che le prestazioni e le dotazioni in termini di ram, giga e pixel hanno cominciato a equivalersi e raggiungere livelli più che soddisfacenti per gli utilizzatori. Il problema è quali funzioni e servizi vogliamo chiedere alla tecnologia: “Sono i fuochi d’artificio che si possono mandare tramite i messaggi i confetti che riempiono lo schermo dell’orologio e Mario Bros e Pikachu che trasformano quella classe austera di Cupertino in un oggetto del desiderio ancora di più e sempre di più rivolto a tutti”, conclude il quotidiano genovese. Sarebbe forse l’ora, però, che i nostri desideri individuali e collettivi, privati e politici, si concentrassero anche su cose più sostanziali. Il cahier de doléances è potenzialmente infinito. Per esempio non dover affrontare una fila interminabile dal medico di famiglia, al pronto soccorso o in un ambulatorio, tanto per limitarci alla sanità elettronica e all’E-Health. Ma anche non rassegnarci a restare imbottigliati nel traffico tutte le mattine come se si trattasse di una maledizione divina: si parla tanto di smart cities, ma di intelligenza nella organizzazione delle nostre città ne troviamo ancora poca.



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