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Le due lezioni di Timur Vermes sul “ritorno del nazismo”

Daniele Capezzone

Esattamente tre anni fa, in Germania, ha destato scalpore ed è stato letteralmente un evento l’uscita di “Lui è tornato”, il romanzo paradossale (ma poi non tanto, come vedremo) del giornalista Timur Vermes. L’idea da cui nasce il plot è semplice e geniale: per un qualche incantesimo, in realtà, si scopre che Hitler non è morto, e anzi si è risvegliato – sempre uguale a se stesso, e però in un mondo totalmente cambiato – nella Berlino del 2011.

La prima parte del romanzo è tutta giocata sul filo del rasoio: Vermes si immedesima perfettamente nel mondo di ragionare di Hitler, alle prese con novità “intollerabili” (una su tutte, una Germania inspiegabilmente piena di Turchi!), bisognoso di imparare a maneggiare oggetti a lui sconosciuti (telecomandi, mouse, computer…), svelto nel giudicare la classe politica ora al potere (“mascalzoni di basso livello”). Nel gioco di specchi costruito da Vermes, l’equilibrio è magicamente realizzato: l’autore ottiene effetti irresistibilmente comici, ma non rinuncia a rendere la ferocia ideologica e la convinzione fanatica di Hitler, tuttora determinato a condurre in porto la sua missione storica. Insomma, il registro è leggero, ma non c’è alcuna scivolata giustificazionista.

Piano piano, però, la cosa si fa più seria. Hitler è proprio Hitler, lo dichiara esplicitamente, lo proclama: eppure, nessuno gli crede. Lo considerano un imitatore, un comico, un comedian, e ovviamente lo portano in tv. Il successo di pubblico è sconvolgente: audience alle stelle, milioni di clic su YouTube, ragazzini impazziti con i selfie. A un certo punto – inevitabile – parte una campagna ostile da parte di un quotidiano. E qui Vermes – come su un tavolo autoptico – disseziona il cadavere della nostra società ipermediatizzata, nevrotica, superficiale, L’intervista che dovrebbe inchiodare il nazista alle sue responsabilità, al contrario, lo “lancia”. I magistrati prima aprono l’inchiesta e poi la chiudono “perché l’arte non si censura”. I giornaloni mainstream e i relativi intellettuali di riferimento dibattono, avvolotolati e persi nelle loro chiacchiere inutili, e – in ultima analisi – finiscono per celebrare e premiare Hitler. Insomma, Vermes, sorridente ma feroce, non risparmia nessuno: una tv imbevuta di conformismo (da manuale le pagine sugli “autori” dei programmi, antropologicamente e sociologicamente “banalizzatori””), popolata da cuochi e trasmissioni di cucina, ormai ridotta a badante per anziani e ad anestetico per un ceto popolare impaurito e impoverito; i new-media come diffusori di non-pensiero e allenatori di generazioni di ragazzini che parlano una lingua incolta, elementare e smozzicata; i vecchi giornali come residuato ormai inservibile e autoreferenziale.

Hitler è basito. Ma come? Questi poderosi strumenti propagandistici vengono usati così male? E allora ci pensa lui a usarli “al meglio”. Credono sia un comico? Lo trattano da celebrity? Benissimo: e intanto lui, con granitico dogmatismo, comizia in ogni spazio che gli viene concesso. In un’era di raggelante assenza di idee, lui è graniticamente convinto di qualcosa e va dritto per la sua strada. Circondato da gente che non crede in nulla lui, “credente” nella sua feroce idea, entra come una lama nel burro.

A un certo punto (comicamente, saranno alcuni estremisti di destra a farlo!), Hitler viene aggredito per strada e picchiato selvaggiamente. Ma si salva. Qui c’è un altro pezzo di bravura di Vermes, che descrive la più classica “gara di solidarietà” da parte della politica ufficiale. Da tutte le parti (democristiani, socialdemocratici, liberali, verdi, comunisti!) è un fiorire di dichiarazioni, appelli, proposte di candidatura. Ma Hitler – furbo – ha deciso di giocare in proprio: un nuovo libro, un nuovo programma tv, e soprattutto un movimento politico tutto suo, con lo slogan “Non tutto era sbagliato”. Un trionfo annunciato.

Il romanzo di Vermes diverte, stordisce e inquieta, nello stesso tempo.

Commuove e fa pensare, anche nelle sue pagine più “tedesche”, nel proporre un’analisi storica non assolutoria, nel rifiutare la “rassicurante” fotografia di Norimberga (solo i gerarchi colpevoli delle atrocità). Vermes è straordinario nel riproporre (con la scorrevolezza della narrativa) il tema scottante del “consenso”: e non solo “allora”, ma potenzialmente anche “ora”. Anzi, ora più di allora, con un sistema mediatico che può essere un poderoso propagatore (nel conformismo imperante) di un non-conformismo (o di un apparente non-conformismo) efficace, travolgente, popolarissimo. Il tutto in un ambiente (il nostro: guardiamolo questo specchio, anche se mostra un’immagine che fa male) dispostissimo a farsi ingannare, a sottovalutare, a non capire.

Ma Vermes sceglie fino in fondo (e fa benissimo) di rompere tutti gli schemi, di violare tutti i santuari. Qua e là, dissemina osservazioni lucidissime sul presente, tipo l’ammirazione di Hitler per l’uso propagandistico delle Olimpiadi fatto dalla Cina (“come noi a Berlino nel ‘36…”). E, su un altro piano, tornando alle società occidentali di oggi, l’autore dedica pagine da incorniciare a come sia proprio il “politicamente corretto” a generare e alimentare risposte estremiste. Geniale è il modo in cui il “nuovo” Hitler, nel romanzo, viene introdotto in tv per la prima volta dal classico “bravo presentatore”: “[…] In nome del multiculturalismo, ecco la Germania vista anche da un tedesco […]”. Così, Vermes ci dà due lezioni: il mostro è dentro e non fuori di noi, e soprattutto è certo conformismo buonista a poterlo nutrire e alimentare.

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