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Mps, ecco fatti, mezze verità e qualche frottola sul Monte dei Paschi di Siena

“Tutto sotto controllo”. Con questa frasetta fonti del Tesoro hanno chiosato le dimissioni dell’amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola, giovedì scorso. Una frasetta sibillina così interpretata da chi, per mestiere, deve leggere e tradurre le sibille istituzionali: il ministero dell’Economia retto da Piercarlo Padoan ha chiesto a Viola di farsi da parte dopo auspici e sollecitazioni anche di banche d’affari e consulenti che seguono il piano di salvataggio e rilancio del Monte dei Paschi di Siena.

Quindi un azionista di Mps, ossia il Tesoro, con solo il 4% delle azioni, accompagna più o meno soavemente alla porta il capo azienda di una banca che il 29 luglio aveva annunciato il piano suddetto tra il giubilo della Bce, del Tesoro e dei medesimi banchieri d’affari (in primi, Vittorio Grilli oggi capo della divisione Corporate and Investment Banking per Europa, Medio Oriente e Africa di Jp Morgan) e consulenti. Che cosa è cambiato dal quel 29 luglio le sibille cumane dei palazzi istituzionali e finanziari non lo hanno ancora ben sussurrato.

Noi poveri cronisti ci possiamo arrabattare con ipotesi e scenari, leggendo magari tra le righe delle cronache già scritte. C’è chi dice che Viola non volesse prorogare l’aumento di capitale dopo il referendum, come invece auspicato da Jp Morgan e Mediobanca a capo del consorzio di garanzia. C’è chi sostiene che c’erano dissidi sulla possibilità (non esclusa da banchieri d’affari e consulenti) di trasformare in azioni una parte delle obbligazioni subordinate (solo quelle degli istituzionali o pure quelle detenute dalla clientela retail?). Chi ha borbottato di tensioni nel cda sulle commissioni da riconoscere ai membri del consorzio di garanzia. Chi ha scritto che era venuta meno la fiducia del mercato nella capacità di Viola di mandare in porto il piano su sofferenze e ricapitalizzazione. E chi ha ipotizzato che le divisioni fossero anche sull’esclusione del diritto di opzione legato all’aumento (le banche la volevano per fare l’aumento a un prezzo maggiore, Viola no per “difendere” gli attuali soci).

Così il premier del governo che assicurava “la politica resti fuori dalle banche” ha silurato l’amministratore delegato di una delle maggiori banche italiane. Chissà, in altre epoche, con altri premier e titolari del Tesoro, banchieri d’affari e analisti sui giornali di Paesi dove lo Stato sguazza negli azionariati delle banche si sarebbero stracciati le vesti parlando di invasione di campo e di intromissioni dei politici nel mercato concorrenziale. Finora, se non si erra, codeste reazioni non si sono lette e ascoltate, neppure dai turbo liberisti in servizio permanente effettivo, almeno fino a quando orchestrano operazioni di sistema come il fondo Atlante (il riferimento all’economista turbo liberista Alessandro Penati non è casuale).

Ma la sbandierata atarassia dell’esecutivo sulla questione banche, e in particolare sul dossier Mps, viene smentita da altre cronache – come quella del quotidiano la Repubblica di sabato 10 settembre – secondo cui il premier “Matteo Renzi nel recente G20 ad Hangzhou avrebbe sottoposto a un paio di fondi sovrani cinesi il dossier Mps, sperando di ottenere gli 1-2 miliardi di euro che governo e banche d’affari ritengono imprescindibili per la riuscita dell’aumento Mps”.

Beninteso, qui nessuno si dimena per questo attivismo istituzionale e governativo, vista la rilevanza del Monte dei Paschi di Siena, ma forse sarebbero auspicabile meno frasette sibilline e più spiegazioni dettagliate, senza mezze verità o palesi frottole.



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