Il sito americano specializzato in affari mediorientali Al Monitor pubblica un fondo a firma di Ben Caspit dal titolo eloquente: “Bibi è un sostenitore di Trump?”. Dove “Bibi” sta per il soprannome con cui viene chiamato Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, e Trump è The Donald, il candidato repubblicano alla Casa Bianca. Si menziona l’autore dell’articolo, Caspit, non solo perché è un columnist di fama sulle questioni israeliane, ma perché è anche il coautore della biografia che ha avuto più successo sul premier, uscita nell’ottobre del 1998 (“Netanyahu: The Road to Power”): dunque il commento del giornalista si porta dietro anni di esperienza nell’analizzare il comportamento di Bibi.
EQUILIBRIO
Spoiler: la risposta alla domanda in testa all’articolo è “snì”, Netanyahu preferirebbe la vittoria di Trump su Hillary Clinton, ma sa che quest’ultima è vista come un presidente migliore da molti stati nel mondo, e dunque è pronto ad accettarla. Background: mentre la popolarità in Israele ottenuta dalla presidenza di Bill Clinton era alta, Hillary già ai tempi in cui era first-lady era considerata più fredda e distaccata alla causa, più a sinistra del marito sulla questione israeliana, e questo atteggiamento è continuato nei tempi in cui guidava la diplomazia Usa. Quello di Bibi su Trump però è un auspicio non formalizzato, diverso da ciò che fu con Mitt Romney, quando nel 2012 per la prima volta un premier israeliano prese apertamente posizione sui contendenti alle presidenziali americane. Anzi, pare che l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Ron Dermer, uno dei più stretti collaboratori del capo del governo, “Il cervello di Bibi” (Politico, 2013), abbia ricevuto chiare istruzioni per mantenere le distanze dalla scontro politico e posizionarsi in una zona franca. Però, secondo Caspit ci sono chiari segnali del fatto che il primo ministro israeliano propenda per Trump: sono aspetti che vanno oltre la teorica affinità politica tra i repubblicani Usa e il partito conservatore israeliano Likud di cui Netanyahu fa parte, e passano per quel rapporto personale non idilliaco che il premier ha con Hillary. Prima di andare avanti: è normale che chiunque, dalla Russia a Matteo Salvini, abbia interesse nello scegliere una posizione tra i due contendenti in campo per le presidenziali americane? Sì, certamente: o almeno così sarà finché l’ordine mondiale vedrà gli Stati Uniti come pedina centrale. Sì-2: è possibile anche che i leader si espongano per indicare la proprie preferenze alla vigilia di importanti appuntamenti politici in Paesi alleati o non, di solito lo fanno senza scoprire troppo le carte per evitare di inasprire i futuri rapporti dovesse essere perdente il loro cavallo, ma anche questa non è una legge – paradigma molto attuale: martedì l’ambasciatore americano in Italia, John Phillips si è schierato a favore del Sì sul referendum per la riforma costituzionale: “La vittoria del No sarebbe un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia”, ha detto, spiegando perfettamente il motivo di questo genere di prese di posizione.
LA CLIP DI BIBI
Uno degli esempi che Caspit riporta per spiegare questa tendenza pro-Trump di Netanyahu è una clip video del 9 settembre, nella quale il premier ha risposto a “coloro che” considerano “le comunità ebree in Giudea e Samaria” (riferendosi al West Bank usando i nomi biblici) un “ostacolo per la pace”: per capirci, la presenza degli insediamenti è considerata ostativa per il processo di pace da Bruxelles e Washington. Il primo ministro israeliano ha calcato la mano. Nessuno considera i due milioni di arabi che vivono in Israele come un ostacolo per la pace, ha detto, e poi il colpo di grazia: “La nostra regione ha bisogno di più tolleranza, non di meno… Le società che richiedono la pulizia etnica non perseguono la pace”. L’uso dei termini “pulizia etnica” ha mandato su tutte le furie il dipartimento di Stato americano, e la portavoce Elizabeth Trudeau ha risposto nel merito in conferenza stampa e, sostenendo di avere “reali dubbi” sulle intenzioni a lungo termine di Israele in Cisgiordania, ha detto: “Noi riteniamo che l’uso di questo tipo di terminologia sia inappropriata e di nessun aiuto. Condividiamo l’opinione delle precedenti amministrazioni e della comunità internazionale secondo cui l’attività di insediamento in corso è un ostacolo alla pace”. È da notare che nelle “precedenti amministrazioni” dietro al seggio stampa occupato da Trudeau il capo era proprio la Clinton.
I LINK DIETRO ALLE PAROLE
Ma c’è di più, perché Haaretz ha notato che le parole usate da Netanyahu riprendono quasi alla lettera alcuni stralci di un documento di “alta strategia” dal titolo “Israeli Project” redatto nel 2009 per i repubblicani dal PR Frank Luntz, lo stesso che martedì 12 settembre ha scritto un commento sul Financial Times dove sostiene che Trump potrebbe vincere le elezioni perché ci sono “abbastanza elettori arrabbiati” per spingerlo alla presidenza: “Ciò che rende il referendum del Regno Unito rilevante per l’elezione degli Stati Uniti non è il risultato, è il risentimento” scrive, ripentendo la previsione fatta dopo il discorso alla convention repubblicana, in cui Trump cercò di aizzare il dissenso con uno speech molto pessimista sulla situazione americana, che secondo Luntz, uno dei pochi a sostenerlo, sarebbe stato una leva tra i consensi (full disclosure: non si può dire che lo sia stato, anche se in questa fase Trump sta recuperando punti, ma sono passati quasi due mesi da quel discorso). Trump può vincere, continua Luntz, soprattutto perché dopo “un quarto di secolo di candore discutibile, c’è poco che la signora Clinton può fare per riparare la sua credibilità con gli elettori in questa ultima fase”: questo passaggio potrebbe essere piaciuto a Bibi e alle ali più estremiste della politica israeliana, che incolpano le ultime amministrazioni americane di aver fatto il doppio gioco, con i palestinesi o con gli iraniani. Luntz nel doc strategico di sette anni fa sosteneva che utilizzare il termine “pulizia etnica” quando si parla degli insediamenti dei coloni israeliani crea un feedback positivo tra gli americani, e per questo ne consigliava l’uso; è il suo lavoro, nel pezzo sul FT consiglia invece a Trump di essere “truth-teller“, ossia dire la verità inteso nel modo anti-establishment di affrontare le platee, ma con maggiore garbo, in quel modo “potrà diventare il prossimo presidente”. Altri link utili: l’esperto di comunicazione e sondaggista conservatore Luntz, che chiede ai suoi follower (119k) su Twitter “Chi preferisti come presidente?” e loro rispondono Vladimir Putin a maggioranza, ha avuto alle sue dipendenze Dermer prima che diventasse una pedina nevralgica di Bibi, ingaggiato durante la campagna per le mid term del 1994, dopo le quali i repubblicani vinsero la Camera per la prima volta dal 1954 e ottennero anche la maggioranza al Senato facendo chiudere il primo mandato a Bill Clinton con le camere contrarie – Luntz era professore all’Università della Pennsylvania quando l’attuale ambasciatore israeliano era un brillante studente che “vinse il dibattito” (parole di Luntz) quando in sede di esame il docente sosteneva che gli israeliani dovrebbero essere condannati per certi trattamenti ai palestinesi e Dermer difendeva “appassionatamente” Israele (racconta il New York Times che quando raccontò la vicenda alla madre lei gli chiese “come hai fatto ad avere la meglio sul professore?” e lui rispose “ho mentito”, sulla completa bontà di Israele, sottinteso).
L’EQUILIBRISMO
Trump nel corso della campagna elettorale ha sostenuto il diritto di Gerusalemme di aumentare gli insediamenti in Cisgiordania per delinearsi come un pro-israeliano, e il video di Netanyahu calca la mano contro i democratici, usando una terminologia forte che potrebbe colpire le sensibilità degli elettori (per questo Luntz l’aveva pensata). Parrebbe un solco chiaro, ma Israele è eccezionalista per natura. Il primo ministro si muove invece senza tracciare apertamente una linea e mantenendo aperta un’exit strategy per poter rendere la pillola Clinton-vincitrice un po’ meno amara. Se tra Hillary e Bibi c’era “una pozza di sangue”, per citare una terminologia usata sempre da Caspit in un vecchio articolo, con Barack Obama c’è un “mare nero” a separarli. Tuttavia gli Stati Uniti non mollano Israele e viceversa: mercoledì a Washington si firmerà un pacchetto di aiuti militari, “il più grande della storia” lo definiscono fonti americane del Guardian, da 38 miliardi di dollari finanziati in dieci anni a Gerusalemme. Il fatto che Netanyahu, che ha rimandato i negoziati sull’accordo per circa dieci mesi, abbia deciso di firmare adesso l’intesa (che prevede anche delle limitazioni per Israele) con Obama e non tra qualche mese con il suo successore, può essere di per sé un indizio programmatico su una generale sfiducia del primo ministro per il futuro, sia Trump o Hillary. Obama e Netanyahu tra l’altro dovrebbero vedersi in separata sede durante un bilaterale a margine dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, in programma per il fine settimana a New York. Sul tavolo probabilmente anche la questione siriana: gli israeliani sono piuttosto nervosi per l’allargamento dei combattimenti nelle zone vicine al Golan, hanno un accordo tacito di intervento con i russi, ma gli americani sono ancora i partner prediletti.