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Tutti gli scenari dopo l’incontro Obama-Erdogan

Il presidente americano Barack Obama ha visto l’omologo turco Recep Tayyp Erdogan ieri 4 settembre in uno degli incontri a latere del G20 cinese di Hangzhou. Questo genere di faccia a faccia sono di solito gli aspetti più polposi dei grandi summit multilaterali, e quello tra i leader di Ankara e Washington è un importante passaggio sulla stabilità globale attuale. Turchia e Stati Uniti godono da anni di un’alleanza strategica, con cui Ankara sposta il proprio asse geopolitico verso Occidente e, dall’altra parte, Usa e Europa (e Nato), posso vantare un un avamposto verso la Russia e verso il Medio Oriente.

PERCHÈ È IMPORTANTE

Negli ultimi mesi sono successe due fatti contrastanti attorno a queste relazioni, relazioni che vanno oltre gli interessi dei due Paesi: la spiegazione del contesto è necessaria per inquadrare l’importanza dell’incontro avvenuto in Cina. Primo, in Turchia c’è stato un tentato colpo di Stato, fallito dopo poche ore dall’avvio dei movimenti (il 15 luglio), per cui il governo fa ricadere le accuse sulle trame del predicatore Fetullah Gulen, autoesilitatosi negli Stati Uniti e acerrimo nemico di Erdogan, al punto che il sui movimento è identificato come un’organizzazione criminale delle autorità turche. Ankara ha mosso le sue reazioni su due piani: su quello istituzionale ha accusato Gulen e chiesto sostegno agli alleati occidentali, che invece si sono dimostrati piuttosto freddi nell’allungare la mano verso il governo turco; su quello interno, con purghe e reazioni autoritarie che hanno portato all’estromissione dalla vita pubblica di decine di migliaia di persone, considerate colluse con i golpisti, ma la reazione non si è fermata solo a questo, perché l’Akp (il partito di Erdogan) ha alzato il livello del dibattito accusando la complicità degli occidentali con i gulenisti – un’operazione che ha avuto uno scopo propagandistico, per consolidare il consenso e accendere i proseliti, ma che ha trovato base su quelle reazioni disinteressate degli stati europei e dell’America. Il secondo fatto rilevante successo nelle ultime settimane è l’incontro di Erdogan con Vladimir Putin. Da dieci mesi Russia e Turchia erano ai ferri corti per la vicenda del bombardiere russo abbattuto dai caccia turchi mentre era in missione sulla Siria: un episodio che ha vuotato il colmo di un rapporto che dal settembre scorso si era andato deteriorando, dato che la Russia era intervenuta in modo massiccio a sostegno del regime di Damasco, ossia sul fronte opposto di quello occupato dai turchi fin dall’inizio delle manifestazioni contro Bashar el Assad nel 2011.

WASHINGTON RIAPRE LA VIA TURCA

La somma della sfiducia e della riapertura dei rapporto con Mosca come inevitabile risultato dà il nuovo avvicinamento tentato da Washington, che fondamentalmente si è basato in tre passaggi, di cui il bilaterale Obama-Erdogan è quello conclusivo a sintesi del percorso. Il primo, una visita ufficiale del vice presidente Joe Biden in Turchia – Biden è stato il primo leader occidentale ad essere entrato nel Paese dopo il golpe del 15 luglio, e si è scusato per esserci andato solo il 24 agosto, scuse cui Erdogan ha reagito impassibile e anzi ha calcato la dialettica sulla necessità dell’estradizione di Gulen: il tour del Veep aveva anche lo scopo di bilanciare l’incontro di San Pietroburgo con cui Putin invece era stato il primo in assoluto ad accogliere Erdogan post-tentata-destabilizzazione. Secondo step, il lasciapassare diplomatico e operativo sulla missione turca al nord siriano: il 24 agosto, poche ore prima dell’atterraggio dell’Air Force Two che trasportava Biden ad Ankara, il governo turco ha lanciato il proprio esercito in una campagna ufficialmente organizzata per liberare l’ultima fetta del territorio di contatto turco-siriano dallo Stato islamico. I carri armati hanno sconfinato prima nell’area di Jarablus, e poi (due giorni fa) ad al Rai, più a est: si tratta di una fetta di terra lunga qualche decina di chilometri su cui i turchi hanno un interesse strategico che si somma alla sicurezza nazionale. Lo Stato islamico è una realtà problematica, e sfrutta da anni i permeabili confini turchi per passaggi di uomini e armi, gli stessi uomini che a volte rientrano in Turchia, sfruttando presenza logistica, per colpire con attentati di rappresaglia contro le operazioni militari anti-IS. Una su tutte, la Turchia ha concesso l’uso della base di Incirlik alla Coalizione, e questo ha aumentato l’efficienza dei velivoli sia nelle attività di monitoraggio che in quelle di esecuzione con risultati evidenti: per esempio, Abu Mohammed al Adnani è l’ultimo di una lunga serie di alti notabili del Califfato eliminati dalle bombe americane dopo essere stati tracciati; la Turchia conosce bene l’importanza della sua base, e tra le vendette per le reazioni fredde occidentali minacciava di chiuderla. Ma alla stregua di eliminare la minaccia IS in nome della sicurezza nazionale, l’azione turca in Siria si porta dietro anche un grosso interesse strategico: quello stesso territorio che sta rapidamente uscendo dal controllo dei baghdadisti, con uguale velocità sta entrando nelle mani dei curdi siriani. È l’area dei Rojava, l’entità statuale indipendente sognata dal confederalismo democratico rivoluzionario curdo. Ankara cerca di tarparne i progetti unitari, con cui la porzione orientale potrebbe connettersi al cantone mediterraneo di Afrin proprio tramite quei chilometri mancanti da Jarablus ad al Rai: l’invasione soft è un piano per fermare questo progetto, considerato dalla Turchia un problema di stabilità interna. Se i curdi siriani dovessero ottenere un proprio territorio, sarebbe possibile che nell’ambito dei negoziati politici sulla guerra siriana possa essere riconosciuto, anche come contropartita per il valore offerto in battaglia: gli americani considerano i miliziani curdi alleati preferenziali nel conflitto, i migliori nel combattere il Califfato, tanto che sono affiancati da forze speciali Usa. Washington ufficialmente non supporta i piani autonomisti, ma uno scambio per la lealtà e il valore è probabile che fosse implicito fin qui. Attualmente però la linea americana è quella di richiamare i curdi all’ordine, facendoli tornare ad est dell’Eufrate, limite territoriale imposto dalla Turchia: le Ypg curde si erano spinto oltre il fiume nell’area di Manbij, città liberata dall’IS insieme all’aiuto statunitense (i combattenti curdi che occupano la città, inclusi a maggioranza con altre milizie arabe nel raggruppamento politico creato dagli americani, e che va sotto il nome di Syrian Democratic Forces, quattro giorni fa hanno issato sui tetti di alcuni palazzi le bandiere e stelle e strisce per marcare chi ha partecipato alla rinconquista).

L’INCONTRO 

Della missione in Siria e della necessità di “finire insieme il lavoro contro l’Isis” hanno parlato Erdogan e Obama nell’ultimo incontro. Per placare gli animi il presidente americano ha alluso a rimettere in discussione la richiesta di estradizione di Gulen (che, detto brutalmente, sarebbe la seconda testa che salta, dopo quella dei curdi, per far tornare in equilibrio i rapporti Usa-Turchia ed evitare spiacevoli deviazioni di Ankara verso la Russia). Fino a qualche giorno fa era un “no” secco, ora Obama dice che aiuterà Ankara per “portare davanti alla giustizia i responsabili” del “terribile tentativo colpo di stato” (citazioni del Prez). Dopo cinquanta giorni di freddezza, domenica è arrivato anche il sostegno e la comprensione verso l’Erdogan-post-golpe. Appena una settimana fa i funzionari americani erano stati in visita nella capitale turca e avevano sondato il campo per i paletti legali dell’affaire Gulen: le spifferate ai media americani dicevano che per il momento non c’erano gli estremi, anche perché la Turchia aveva avanzato prove concernenti altre vicende e non quella del golpe, e che gli americani consideravano deboli per mandare Gulen in pasto ai rancori di Erdogan. Nota: il fatto è che a quanto pare per il momento di prove non ce sono, e in molti sostengono che tutto appare come un tentativo di Erdogan di liberarsi di un oppositore, “demonizzandolo” e “punendo” la sua cerchia di consensi – fatta di molte persone innocenti – e la stampa libera, come per esempio ha scritto il sito al Monitor.  Il New York Times fa notare che nelle dichiarazioni ufficiali a margine del bilaterale non ci sono stati i passaggi velenosi con cui Erdogan aveva attaccato Biden, e nemmeno Obama ha evidenziato le diverse divergenze di interessi emerse ultimamente tra Stati Uniti e Ankara: una su tutti, la questione al nord siriano, dove non solo la Turchia si è anche scontrata con i curdi US-backed, ma pare che non avesse avvisato preventivamente Washington dell’azione.

GLI INTERESSI

Ma Washington, come Mosca, ha anche un interesse nella presenza turca nell’area del nord siriano: ora Ankara, lasciata libera di agire, avrà il compito evidente di controllare i flussi al confine, e questo dovrebbe essere un elemento positivo in chiave anti terrorismo. Uno dei vari esempio di balance of power della dottrina obamiana. A margine del G20 c’è stato anche un altro incontro importante: i ministri degli Esteri americano e russo si sono visti, per la seconda volta in pochi giorni, per intavolare (di nuovo) la via negoziata di risoluzione al conflitto siriano. Il vertice si è concluso con un nulla di fatto, nonostante il giorno precedente Putin avesse annunciato trionfante in un’intervista alla Bloomberg che un accordo con l’America era vicino. Scrive la Reuters che ufficialmente non sono stati definiti i punti di mancato contatto: nuovi incontri sono previsti per il 18 settembre, quando a New York si svolgerà l’assemblea generale delle Nazioni Unite. Il futuro del presidente Assad è uno degli elementi certi di scontro certi, o almeno lo è formalmente, o forse lo era. Ora pare infatti che anche la Turchia sia disposta ad accettare la richiesta russa di includerlo nella fase di transizione (alcuni giornali arabi hanno parlato addirittura di una possibile visita a Damasco di Erdogan nei prossimi giorni, ma sono informazioni che non è possibile confermare). Intanto i governativi hanno di nuovo ripreso posizioni ad Aleppo – la tregua decisa a febbraio nell’ultimo proficuo accordo tra Mosca e Washington è ormai sfasciata. Aleppo è la città in cui tre settimane fa i ribelli erano riusciti a rompere un assedio che durava da mesi, la situazione dovrebbe essere stata al centro degli ultimi colloqui tra Usa e Russia, sia per la crisi umanitaria sia per il valore tattico dato dalla conquista a chi vincerà l’estenuante battaglia. Lunedì anche Putin e Obama ci hanno provato, con una seduta riservata (lunga 90 minuti, pare), ma niente si è sbloccato, e il New York Times ha di nuovo sparato contro l’Amministrazione: “Il presidente americano cerca un cessate il fuoco a Aleppo, ma tutta la sua linea politica è debole”.  Altre informazioni non ufficiali arrivano proprio dai ribelli assediati di nella seconda città della Siria, i quali sostengono che il colpo subito nelle ultime ore è dovuto all’indebolimento conseguente allo spostamento di diversi uomini del Free Syrian Army verso nord, dove già altre brigate dell’eterogenea formazione pseudo moderata insorta fin dall’inizio delle ostilità stanno aiutando ufficialmente i turchi nella missione siriana. I ribelli dicono che Erdogan ha dato Aleppo ad Assad, e alla Russia, in accordo con gli Stati Uniti, in cambio di potersi muovere a piacimento al nord: ma per il momento sono solo speculazioni.

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