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Perché con Carlo Azeglio Ciampi la parola Patria tornò di moda

Di tutti i presidenti del Consiglio che si sono succeduti in Italia, Carlo Azeglio Ciampi fu forse quello più nominato per caso: più ancora di Giuseppe Pella nel 1953, quando il presidente della Repubblica Luigi Einaudi lo trasferì improvvisamente dalla guida del Ministero del Tesoro a quella del governo, non essendo riuscito a trovare fra i democristiani un accordo per la successione ad Alcide De Gasperi, lo storico protagonista della ricostruzione italiana nel dopoguerra e delle scelte internazionali che avrebbero poi segnato la storia del Paese.

Anche Pella era un democristiano, ma non un big del partito, per cui il segretario in carica non tardò a manifestare il proprio dissenso dalla scelta di Einaudi liquidando il nuovo governo come “amico”. Ma, per quanto casuale, e provvisorio, in attesa che nello scudo crociato si assestassero gli equilibri del dopo-De Gasperi, e fosse accantonato l’erede che sembrava più quotato, il povero Attilio Piccioni, il governo Pella segnò un passaggio importantissimo della storia repubblicana.

Usciti da soli otto anni sconfitti dalla seconda guerra mondiale, anche se salvatisi in corner alla conferenza di pace per la partecipazione spontanea alla liberazione del Paese dall’occupazione nazifascista, gli italiani riscoprirono con Pella il patriottismo: un po’ come sarebbe poi accaduto –vedremo- con l’altro presidente “casuale”, Ciampi.

Pella pose con forza, il problema della restituzione di Trieste all’Italia, alla quale volevano negarla il maresciallo iugoslavo Tito, l’Unione Sovietica e di riflesso il Pci, allora di stretta dipendenza dal Cremlino. Il presidente del Consiglio in persona fece disporre le truppe sul fronte orientale, minacciando il ricorso alla forza se la Iugoslavia avesse tentato colpi di mano e forzato il carattere provvisoriamente internazionale del cosiddetto territorio libero della città giuliana.

Grazie alla fermezza di Pella, l’anno dopo furono firmati, sia pure col governo successivo di Mario Scelba, gli accordi a Londra che consentirono il ritorno di Trieste all’Italia con l’ingresso in città dei bersaglieri, al loro passo di carica, fra l’entusiasmo di tutto il Paese.

A Carlo Azeglio Ciampi, da lunghissimo tempo governatore della Banca d’Italia, accadde invece di essere trasferito all’improvviso alla guida del governo nella primavera del 1993 su decisione del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Che non sapeva più che pesci prendere per chiudere la crisi apertasi con la caduta dell’ultimo governo della cosiddetta prima Repubblica, se la intendiamo chiusa col referendum che in quello stesso anno abrogò il sistema elettorale proporzionale. Lo abrogò, in verità, solo per l’elezione del Senato ma fu subito evidente che il proporzionale non avrebbe potuto rimanere in vigore solo per la Camera. Si sarebbe tradito, si disse a torto o a ragione, lo “spirito” della volontà popolare, allora già agitato per la sostanziale decapitazione giudiziaria della classe politica dominante. Erano i mesi dei più clamorosi sviluppi delle indagini sul finanziamento tangentizio e illegale della politica. Non si contavano più gli avvisi di garanzia, le richieste di arresto, i suicidi, le dimissioni.

Scalfaro, esaurite le consultazioni di rito dopo le dimissioni di Giuliano Amato, mandato a Palazzo Chigi l’anno prima da Bettino Craxi d’intesa con la Dc, pensò di affidare l’incarico di formare il nuovo governo a Mario Segni, Mariotto per gli amici. Che era stato il protagonista del referendum contro il sistema proporzionale. Particolarmente insistente per Segni fu la designazione dell’allora segretario del Pci Achille Occhetto, che ne aveva apprezzato però non tanto il protagonismo referendario quanto la polemica uscita dalla Dc annunciata dopo il clamoroso coinvolgimento di Giulio Andreotti nelle indagini palermitane sulla mafia.

Proprio per quell’uscita traumatica dalla Dc il segretario democristiano Mino Martinazzoli chiese a Scalfaro, democristiano pure lui, di non fare al suo partito il “torto” di premiare Segni. E suggerì di ricorrere a Romano Prodi, vicino alla sinistra scudocrociata, che lo aveva voluto alla guida dell’Iri, e già ministro dell’Industria in uno dei tanti governi di Giulio Andreotti.

Scalfaro aderì alla richiesta di Martinazzoli, a condizione però che Prodi accettasse Segni come vice presidente del Consiglio. Ma fu Segni a sottrarsi, procurandosi la fama di chi, avendo vinto il biglietto ad una lotteria, se lo fosse perduto.

In particolare, Segni rifiutò l’offerta fattagli personalmente da Prodi per motivi dichiaratamente costituzionali, non accettando l’idea che fosse corretto un governo “a termine”, anche se ce n’erano stati di questo tipo nella storia della Repubblica: a termine perché destinato a rimanere in carica per i mesi necessari all’approvazione di una nuova legge elettorale, valida per le due Camere, e a gestire poi le elezioni anticipate.

Forse Segni pensava, con quel tipo di obbiezione, di potersi rimettere in corsa per la presidenza del Consiglio, ma Scalfaro non gradì. E, archiviando sia lui che Prodi, convocò per telefono Ciampi, dicendogli di attraversare via Nazionale, dove si trova la sede della Banca d’Italia, per raggiungerlo al vicinissimo Quirinale e ricevere l’incarico di presidente del Consiglio.

Il povero Ciampi trasecolò e cercò di opporre qualche resistenza, dicendo che di politica s’intendeva assai poco e ancor meno si sentiva ferrato in tema di legge elettorale. Scalfaro non si perse d’animo, garantendogli il massimo della collaborazione dei suoi uffici, al Quirinale. Nacque insomma un vero e proprio governo del Presidente, inteso come Presidente della Repubblica, con una lista di ministri composta praticamente a quattro mani e comprensiva anche di qualche comunista. Che però non fece in tempo a insediarsi perché costretto dagli ordini del partito a dimettersi per protesta per la mancata concessione, nell’aula di Montecitorio, alla vigilia del voto di fiducia, di tutte le autorizzazioni a procedere contro Craxi avanzate dalle Procure della Repubblica di Milano e di Roma.

Ciampi, sempre consigliato da Scalfaro, non fece una piega. Intascò ugualmente la fiducia e andò avanti per la sua strada, peraltro intralciata da inquietanti attentati di mafia, sino all’approvazione della nuova legge elettorale e alle conseguenti elezioni politiche. Dalle quali però sarebbe uscito come vincitore, a sorpresa di tutti, Berlusconi.

Nelle successive elezioni, anch’esse anticipate, nel 1996, vinse invece Romano Prodi, che richiamò in servizio Carlo Azeglio Ciampi come ministro del Tesoro. Ma neppure Prodi era destinato a durare a lungo. Caduto poco più di due anni dopo, nell’autunno del 1998, per mano della Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti, il povero Ciampi fu chiamato al telefono dal segretario del Pds-ex Pci in persona, Massimo D’Alema, per essere sondato sulla disponibilità a tornare a fare il presidente del Consiglio.

Ciampi prese tanto sul serio l’offerta da preparare una lista di ministri e persino una bozza di discorso di presentazione alle Camere. Ma D’Alema, senza farsi neppure più sentire, decise all’improvviso di sostituire direttamente lui Prodi a Palazzo Chigi. La delusione di Ciampi fu enorme, tanto che pensò di rifiutare l’offerta di rimanere al Ministero del Tesoro. Lo convinse a restare Walter Veltroni, succeduto nel frattempo a D’Alema alla guida del partito. E fu lo stesso Veltroni l’anno dopo a riparare al torto sponsorizzando la candidatura di Ciampi al Quirinale, alla scadenza del mandato di Oscar Luigi Scalfaro.

Come presidente della Repubblica Ciampi non fu per niente casuale e defilato. Fu un presidente attivo, presente, a contatto continuo col Paese, visitandone tutte le province, e rivitalizzando le feste e le parate militari che il suo predecessore aveva messo quasi in disuso per un malinteso senso del risparmio e dell’austerità.

Non appena vedeva un tricolore sgualcito in giro per Roma o per l’Italia, Ciampi ne ordinava la sostituzione. Con lui la parola “Patria” tornò di moda. Ora, col cadavere dell’ex Presidente ancora caldo, sento che il leghista Matteo Salvini lo vorrebbe processare, o quasi, per il contributo dato all’adozione dell’euro in Italia. Come se fosse bastata la calcolatrice di Ciampi al Tesoro per valutare la lira in un modo che, certo, avrebbe potuto essere più conveniente per l’Italia. Che pena. Per Salvini, non per Ciampi naturalmente.

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