Per inquadrare la polemica aperta a Bratislava dal presidente del Consiglio Renzi contro Francia e Germania a proposito delle politiche di austerità e cercare di capire come possa andare a finire, bisogna fare un passo indietro e risalire alle origini ed ai contenuti del cosiddetto Fiscal compact che è l’oggetto del contendere.
La questione risale a quasi venti anni fa, agli anni che precedono la nascita dell’euro. Nel 1992, con il Trattato di Maastricht, l’Europa decise di introdurre una moneta unica al posto delle valute nazionali e di creare una Banca Centrale Europea che rilevasse le funzioni svolte in precedenza dalla banche centrali dei paesi membri.
Era una decisione ambiziosa che voleva far fare non un passo bensì un salto in avanti nell’integrazione economica e politica dell’Europa. Ma essa creava un vincolo fra i paesi membri molto maggiore che in passato; metteva in comune le possibilità e le speranze, ma anche i problemi ed i possibili guai. La Germania che era già allora il Paese più forte dell’Europa non vedeva con particolare favore questa idea caldeggiata invece dalla Francia, dall’Italia ed a altri Paesi. La Germania era allarmata, anzi allarmatissima, fin da allora, per la condizione di disordine finanziario di molti paesi fra cui sopratutto l’Italia con il suo già immenso debito pubblico.
Per questo nel Trattato di Maastricht si previde che non tutti i Paesi membri sarebbero stati ammessi alla moneta unica, ma solo quelli che dimostrassero di avere messo sotto controllo l’inflazione, i tassi di interesse e soprattutto deficit e debiti pubblici. La Germania, in realtà, puntava apertamente a tener fuori l’Italia, almeno per un primo periodo, fino a che non fosse chiaro se il Paese aveva deciso di mettere la testa a posto. A questo fine propose che potessero entrare nella moneta unica solo i Paesi che avessero un deficit inferiore al 3% ed un debito pubblico non superiore al 60% del reddito nazionale. Con questa formula, l’Italia, che aveva allora il 10% di deficit e il 126-128% del debito in rapporto al PIL, era destinata a restare fuori.
Ma nella fase finale del negoziato di Maastricht, l’allora ministro del Tesoro italiano, Guido Carli, riuscì a ottenere una formula molto meno drastica: si previde che potessero entrare non solo i Paesi che rispettavano quei due vincoli del 3% e del 60%, ma anche quelli che, pur superandoli, dimostrassero di star riducendo quegli squilibri e di tendere appunto a rientrare nei limiti previsti. Questa fu la formula che passò.
Poi venne la fase 1992-1998 nella quale i Paesi si prepararono all’esame di ammissione alla moneta unica basato sul rispetto dei parametri stabiliti. L’Italia, con il governo Prodi di cui fu ministro del Tesoro proprio Carlo Azeglio Ciampi scomparso venerdì scorso, decise che dovevamo entrare a tutti i costi e prese una serie di misure per ridurre l’inflazione da un lato e per riequilibrare i conti pubblici dall’altro. Ciampi fu molto persuasivo con i colleghi di altri paesi, soprattutto con i tedeschi presso cui godeva di un’altissima considerazione nel convincerli che noi eravamo sulla strada giusta, determinati a diventare seri e severi come dei tedeschi.
Nel 1997 divenne chiaro che l’Italia, pur essendo lontana dai limiti di Maastricht del 3 e del 60%, mostrava un lento ma progressivo miglioramento dei parametri di finanza pubblica per cui divenne evidente che nel 1998 il deficit in un modo o nell’altro sarebbe stato pari o lievemente inferiore al 3%, mentre il debito, pur ovviamente restando mostruosamente elevato, sarebbe sceso di qualche punto, dal 126-128 al 123-122%.
La Bundesbank, nonostante questi segnali, era e restava fieramente contraria all’ingresso dell’Italia. Erano invece favorevoli il cancelliere Kohl e l’industria tedesca. Kohl per ragioni politiche legate al sogno di un’Europa unita; l’industria tedesca per paura della concorrenza che l’industria italiana avrebbe potuto fare alla Germania se fossimo stati liberi di svalutare la lira rispetto alla nuova moneta europea. Politicamente, venne deciso che l’Italia era dentro.
E allora, per cercare di vincolare i comportamenti futuri dei paesi che entravano nell’euro, i tedeschi, con i francesi al loro seguito, proposero un accordo che ebbe il nome di Patto di stabilità e di crescita, che estendeva al futuro le regole previste per l’ammisssione alla moneta unica. Il patto di stabilità imponeva che il 3% e il 60% valessero non solo come regole di ingresso, ma come vincoli assoluti.
Era un patto “stupido”, come lo definì Romano Prodi, perché non distingueva fra spese correnti, che è giusto contenere entro i limiti del prelievo fiscale, e spese di investimento che invece non ha senso alcuno limitare se sono utili e se fanno crescere la produttività di un paese. Il patto venne criticato, con identici argomenti, anche dai propugnatori dell’Europa e della austerità, come Mario Monti, ma non fu possibile indurre i tedeschi ad alcuna correzione: non si fidavano dei partner e soprattutto non si fidavano (come non si fidano tuttora) di noi e quindi volevano regole semplici, trasparenti ed applicabili senza equivoci. Erano scottati dall’abilità con cui Carli aveva aggirato la loro posizione nel 1992 e non volevano saperne di essere giocati una seconda volta.
Cosi nacque il Patto di Stabilità che avrebbe dovuto impedire le crisi finanziarie in Europa, ma che ovviamente non le ha impedite nel 2008 quando è partita la grande crisi in America. Quella crisi ovviamente ha fatto esplodere i deficit pubblici anche perché in molti paesi, ma non in Italia, i Governi hanno dovuto metter un sacco di soldi nel sistema bancario per evitare quei fallimenti che ora vorrebbero invece che fossero scaricati solo sulle spalle di azionisti e obbligazionisti delle banche stesse. Il patto di stabilità, che non ha impedito la crisi, ha però impedito le politiche per uscire dalla crisi. Mentre negli Stati Uniti, all’indomani della crisi, il governo ha immesso immense risorse nel sistema e con la cooperazione della Banca Centrale che ha acquistato i titoli del debito pubblico ha fatto ripartire l’economia, in Europa, la logica dell’austerità che non ha impedito la crisi ha invece impedito di uscire dalla crisi. È dovuta intervenire la Bce, ma, come si è visto, non basta creare moneta se nessuno la domanda. Se l’economia privata non tira, spetta all’economia pubblica fare la sua parte: quella parte che il Patto di Stabilità vieta.
Nel 2012, la Germania, di fronte all’evidente sforamento dei parametri ed alla situazione greca, ma anche alla situazione italiana del governo Berlusconi considerato inaffidabile (ricordano i lettori il risolino della Merkel e di Sarkozy a proposito di Berlusconi in una conferenza stampa congiunta dopo un vertice nel Lussemburgo? Nella conferenza stampa Hollande-Merkel di Bratislava è mancato il risolino, ma per il resto la situazione di isolamento dell’Italia era la stessa di allora), decise che bisognava ulteriormente stringere i bulloni dell’austerità e specificare non solo i traguardi, ma anche i tempi e le sanzioni.
Venne così stabilito (ed approvato dall’Italia, capace di esporre ambiziosi programmi ideali, di esprimere aspre critiche sulle regole europee, ma curiosamente assente – vedi la questione del cosiddetto “bail-in” – dai tavoli negoziali dove si decide) di introdurre in Costituzione l’obbligo del pareggio del bilancio; di stabilire che il deficit “strutturale” (sia consentito di non spiegare tecnicamente di che si tratta), cioè il deficit non dovesse superare lo 0,5% del PIL e soprattutto che ogni anno, a partire dal 2016, si doveva ridurre di un ventesimo la distanza fra il rapporto debito/PIL e il 60%.
Per spiegare di che norma capestro si tratta, si consideri l’Italia che ha oggi un rapporto debito/PIL del 130 % ed oltre. Diminuirlo di un ventesimo l’anno vuol dire che il rapporto quest’anno dovrebbe scendere di circa 5-6 punti in rapporto al PIL dal 130 al 125 e così per i prossimi venti anni. Ovviamente, se l’economia italiana crescesse del 3% e se l’inflazione, come vorrebbe la BCE, fosse del 2%, per ottenere questo risultato, basterebbe tenere il bilancio in pareggio. Ma se invece, come è oggi, il reddito cresce di 0, e l’inflazione di altrettanto, per scendere di 5 punti il rapporto debito/PIL vi deve essere un attivo di bilancio di questo ammontare, cioè più tasse a dismisura, tagli di spesa e così via e dunque, inevitabilmente, meno crescita. Il Fiscal compact è, come ho scritto molte volte, irrealizzabile e destinato a portare la crisi in Europa, una crisi finanziaria del debito pubblico ed una crisi politica.
Questa dunque, per i lettori che hanno avuto la pazienza di leggere fino a qui, è la situazione nella quale improvvisamente il governo italiano si è risvegliato, avendo dormito un sonno pluriennale. Renzi ha parlato venerdì scorso in un’affrettata conferenza stampa di rinegoziare il Fiscal compact. Ritengo che possa toglierselo dalla mente. La Germania non accetterà mai di attenuare le regole. Essa può al massimo chiudere un occhio sui Paesi che considera politicamente affidabili, come la Francia o la Spagna. Non considera affidabile l’Italia in generale e temo che non consideri affidabile l’attuale Presidente del Consiglio. Se, come facciamo noi, un Paese strilla, rischia di mettere la Germania in difficoltà davanti ai suoi elettori (che già non amano più molto la cancelliera Merkel) e costringendola a esercitare maggiore durezza verbale.
Come ho scritto molte volte, le regole della moneta unica sono sbagliate; esse, alla lunga, rischiano di rendere insostenibile la moneta stessa. Ma esse non verranno cambiate. Si possono scegliere due strade: quella di rispettare le regole, subire la depressione e chiedere ai cittadini la pazienza di sopportare; oppure si possono violare le regole sperando che, con il nostro debito pubblico, i mercati finanziari non ci diano una mazzata, magari su impulso di qualche ambiente europeo. La cosa peggiore, che l’Italia ha praticato costantemente da Berlusconi a Renzi è di criticare aspramente le regole, cercare comunque di rispettarle ottenendo qualche flessibilità e qualche sconto e ingannare i nostri concittadini sul vero contenuto delle politiche scelte.
Così non si va da nessuna parte. Non si acquista prestigio né capacità negoziale in Europa; non si affrontano i problemi del Paese. Del resto i dati impietosi resi noti dalla Confindustria nei giorni scorsi (e la Confindustria non è certo antigovernativa, almeno in questo momento) lo testimoniano ampiamente. Una brutta situazione europea, densa di equivoci, nella quale ci stiamo muovendo male, molto male.