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Perché i no del centrodestra al referendum fanno gongolare Massimo D’Alema

Chi ha avuto la possibilità di seguire su la 7 la trasferta di Enrico Mentana alla festa romana dell’Unità per condurre l’atteso confronto fra Massimo D’Alema e Roberto Giachetti sulla riforma costituzionale sotto procedura referendaria sarà rimasto impressionato dalle difficoltà in cui si è più volte trovato l’ex presidente del Consiglio. Che di argomenti per dire no ne aveva francamente meno di Giachetti, convinto del sì perché sarebbe uno spreco perdere anche questa occasione per cambiare le regole scritte una settantina d’anni fa.

E pazienza se il dibattito è apparso a volte surreale in una giornata dominata politicamente dal clamoroso strappo di Matteo Renzi a Bratislava dall’Europa tornata alla coppia Merkel-Hollande, allo sbando sui problemi essenziali della crescita e dell’immigrazione.

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Soprattutto debole è stato il tentativo di D’Alema di sostenere che, bocciata la riforma col voto popolare, le Camere abbiano la possibilità nell’anno e mezzo mancanti alla fine del loro mandato per fare a tamburo battente, e a larghissima maggioranza, una riforma al tempo stesso più stringata ed efficiente. Una riforma alla quale il Senato, appena scampato al suo declassamento ad un’assemblea di cento fra consiglieri regionali e sindaci a mezzo servizio e senza stipendio, dovrebbe trovare la forza davvero eroica di declassarsi di nuovo.

L’ottimismo velleitario di D’Alema è speculare a quello che a destra ha indotto Stefano Parisi a immaginare che addirittura già nella primavera prossima, una volta bocciata la riforma targata Renzi, anche se Renzi preferisce intestarla all’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si possa rinnovare la Camera con una nuova legge elettorale, diversa da quella in vigore da luglio, e il Senato possa festeggiare la sopravvivenza al referendum suicidandosi per lasciare il posto ad un’Assemblea Costituente.

Non si può neppure parlare di sogni di mezza estate perché siamo ormai sulle soglie dell’autunno, quando cadono le foglie dagli alberi. E con le foglie anche i sogni.

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In realtà, come ha ricordato Giachetti, pur tra l’insofferenza di un pubblico che forse, più del sì alla riforma, gli voleva rimproverare la partita pur disperata del Campidoglio giocata nella scorsa primavera, la bocciatura referendaria della riforma segnerebbe il prolungamento del trentennio inutilmente trascorso fra proposte, commissioni bicamerali e quant’altro, anche se D’Alema di questo trentennio ha dato una lettura diversa. Egli ha ricordato, in particolare, le tante modifiche apportate a singoli capitoli o titoli della Costituzione, comprendendovi l’imposizione del pareggio di bilancio, la riduzione dell’immunità parlamentare e persino l’aumento delle competenze regionali, dei cui guasti non si è sentito responsabile assicurando che, se fosse dipeso da lui, non se ne sarebbe fatto nulla.

A volere quello sciagurato pasticcio sulle regioni, cui cerca di rimediare la riforma alla quale però lui si oppone, furono l’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato e l’allora candidato alla guida del governo successivo, Francesco Rutelli, immaginando di sottrarre nelle elezioni del 2001 chissà quanti voti alla Lega. O di sottrarre la Lega al ritorno all’alleanza con Silvio Berlusconi, che invece si realizzò e vinse.

Eppure, visto che quella riforma passò con soli quattro voti di scarto al Senato, sarebbe bastato un ordine di D’Alema ai suoi amici per evitarne l’approvazione. E’ stato proprio lui, motivando in altre occasioni la sua opposizione referendaria alla riforma Renzi, o Napolitano, a sostenere che non vi è disciplina di partito che possa valere in Parlamento in materia costituzionale, ricordando a questo riguardo, ma a sproposito, il precedente di Concetto Marchesi. Che all’Assemblea Costituente dissentì dal suo partito, il Pci guidato da Palmiro Togliatti, non votando l’articolo 7 sulla costituzionalizzazione del Concordato dei tempi di Mussolini con la Chiesa. Ma il dissenso si consumò su un solo articolo, con un voto di astensione concordato con lo stesso Togliatti, che furbescamente l’adoperò per cercare di mitigare la frattura consumatasi su quel tema con i socialisti e i liberali.

Prudentemente D’Alema ha evitato di tornare su questo argomento nel confronto con Giachetti, sapendo che questi lo avrebbe steso letteralmente al tappeto.

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Ma perché l’ex presidente del Consiglio, ormai fuori dal Parlamento e – ha precisato – anche dai giochi delle correnti del Pd, ha deciso di impegnarsi tanto nel referendum contro la riforma costituzionale? La domanda gli è stata correttamente posta da Mentana.

La risposta di D’Alema ne ha rivelato lo stato di delusione per le condizioni, d’altronde rivelata già in passato e in pubblico, in cui si trovano le minoranze del Pd: divise e incerte. A parte una decina di parlamentari usciti allo scoperto sul fronte referendario del no, i critici di Renzi sono apparsi a D’Alema troppo incerti e timidi, a cominciare da Pier Luigi Bersani, il cui no alla riforma è sempre contingente, legato cioè allo stato attuale delle cose, pronto a diventare un sì se mai Renzi cambiasse davvero la legge elettorale della Camera. Ad un “popolo” di sinistra o centro sinistra rimasto acefalo D’Alema ha voluto offrire una voce, ha detto con l’aria di pensare ad una guida, non bastando a dare l’anima ad una battaglia solo un manifesto di 50 e più costituzionalisti. E così egli ha finito per confessare come meglio non poteva di avere lanciato la sua ultima sfida a Renzi. O la va o la spacca.

A questo punto mi chiedo come e quando in quello che fu il centrodestra lo stesso Berlusconi e i vari Brunetta, Romani, Toti, Santanchè, Matteoli, ma anche i vari Quagliariello e Cesa si accorgeranno di essere nella battaglia referendaria contro la riforma costituzionale solo la sponda di D’Alema. Che potrà intestarsi la vittoria del no, in concorrenza solo con Grillo.

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