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Ecco perché dobbiamo opporci alla sparizione del Sud

Il Sud per il nostro paese ha sempre rappresentato una frontiera, qualcosa che segna nelle statistiche, come nella vita, un prima e un dopo. E’ nel 1861, giusto con la riunificazione e la proclamazione del Regno d’Italia, che il rapporto debito-Pil tocca quota 60 per cento (ne sarebbe stata molto contenta Angela Merkel), mentre qualche anno più tardi si raggiunge addirittura il pareggio di bilancio con politiche, manco a dirlo, di austerità.

Ne pagarono le spese le infrastrutture che già da allora cominciarono a mancare da Roma in giù, nonostante a ridosso del nuovo secolo si riprese con il deficit spending. Ma i dati economici non sono gli unici a raccontare questa cesura che ai nostalgici del Regno delle due Sicilie, come ai leghisti della prima ora, ha fatto dire: meglio una federazione che uno stato. Alla fine di quella che molti storici considerano una vera guerra civile, nel 1865 si contarono nel Sud d’Italia almeno 8.000 morti tra i soldati dell’esercito piemontese coinvolto negli anni post-unificazione nella repressione, talvolta feroce, del brigantaggio. Dall’altra parte, quella dei meridionali, considerando anche quanti morirono di “stenti, dolore, disperazione, suicidio, prigionia” e anche chi cadde sotto il fuoco indossando a vario titolo la divisa dei Borbone dai bottoni argentei, il bilancio fu enorme: oltre 100.000 morti, come ha raccontato in un saggio Giordano Bruno Guerri (Il sangue del Sud) sulla base di elementi riportati da più fonti, tra cui quella di Franco Molfese.

Queste cifre danno l’idea di quanto sia sempre stato grande il divario che il Mezzogiorno – che strano, una parola quasi sparita da convegni e articoli – ha dovuto colmare con il Nord, non solo in termini di infrastrutture, occupazione, attenzione della politica, ma anche e soprattutto di significanza e sparizione sociale. Una sparizione dalla carta geografica che oggi, più di 150 anni dopo, continua in alcuni territori. E’ il caso dell’Irpinia, citata quasi solo per evocare il terribile terremoto del 23 novembre 1980 e i suoi effetti nefasti su bilancio e moralità della politica, ma che può assurgere a caso di scuola della questione meridionale. Al netto infatti delle dissertazioni sui guasti e i costi immani della ricostruzione, alcuni provano ancora a fare un’analisi dettagliata di quello che rappresenta per il Sud questa regione nella regione.

Luigi Fiorentino, che ha curato l’edizione di un libro fuori moda insieme a storici ed economisti nell’ambito di una ricerca del centro Guido Dorso, dal titolo “Idee per lo sviluppo dell’Irpinia”, è tra questi. La fotografia che ne esce fuori è quella di una desertificazione di un intero territorio, che dopo il sisma lontano sta pagando il più alto costo della crisi economica. La provincia di Avellino è infatti la provincia campana col più alto tasso di incidenza della emigrazione: nel decennio trascorso non vi sono state variazioni nella popolazione residente (poco sopra le 430.000 unità), tutto è rimasto congelato, si è invece registrato un elevato grado di femminilizzazione della terza e soprattutto della quarta età, mentre sono crollati gli indici di presenza dei giovanissimi. Ma in tutta l’Irpinia, e questo il lavoro del vicesegretario generale alla Presidenza del Consiglio lo evidenzia bene, si sono manifestati nel modo più intenso e in un arco di tempo più breve gli effetti della recessione: il tasso di disoccupazione maschile ha raggiunto il suo livello minimo nel 2008 (7,1 per cento) e il massimo nel 2014 (14,3 per cento), mentre quello giovanile ha toccato il 41,7 per cento e quello femminile il 69 per cento. In Irpinia il comparto industriale ha tenuto più di quello agricolo – che forse può però diventare trainante sull’onda del boom dello slow food – e, complice una “fiatizzazione” che segna il passo in modo preoccupante, ha comunque lasciato sul terreno 1.400 imprese, così come la voce ‘’turismo’’ è fanalino di coda nelle classifiche campane, nonostante gli importanti insediamenti archeologici romani e preromani.

In un contesto così difficile e così dimenticato, la domanda estera può fare la sua parte ma intercettarla, per la verità a tutte le latitudini della penisola, risulta sempre difficile perché non cade dal cielo e necessita di seria programmazione.

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